Francesca Centofanti
Stamattina alle 4:30 ci ha svegliato un gorgoglìo che proveniva dai gabinetti. Fuori pioveva a secchiate, e il livello dell'acqua saliva a vista d'occhio. Acqua sporca, putrida di fogna.
In un primo istante, io e mio marito, abbiamo pensato di cavarcela da soli: io riempivo i secchi, cercando di svuotare quello che saliva dai wc, e lui correva su e giù per le scale. Io pregavo e svuotavo, lui pregava e correva. Ma come in ogni famiglia dove ce la si fa solo gli uni stretti agli altri, sono arrivati loro, i ragazzi, che nella vita quotidiana li appiccicheresti al muro (quasi tutti), perché per alzare un dito gli ci vuole una raccomandata con ricevuta di ritorno. E invece, in una catena perfettamente ed equamente distribuita, ognuno, in silenzio, ha iniziato a fare la sua parte, senza bisogno di chiedere chi dovesse fare cosa. Si è messa in moto una macchina inarrestabile, che per un'ora e mezza ha tenuto botta senza fiatare. E mentre toglievo, più velocemente che potevo, acqua e m***a dal gabinetto, e pregavo che smettesse di piovere, sono arrivati gli aiuti dei vicini, santi vicini. Santa provvidenza. E all'improvviso, dal nulla, mi sono venute in mente le immagini dell'alluvione, del fango, delle case distrutte, di tutto ciò che è stato perduto. Delle città sommerse. E poi i video dei romagnoli, distrutti dalla tragedia, che spalavano fango dalle strade, insieme, cantando. Distrutti ma non annientati. E ho iniziato a pregare per loro. Perché il demonio ha carta bianca quando siamo arrabbiati, poco o sul serio, non gli importa. È un attimo, e per una cavolata (anche solo per le mani giunte che puzzano di cacca) la gratitudine sparisce e il cuore si riempie d'ira e senso di ingiustizia. E c'è solo un antidoto: non farsi fregare. Ma non è che esiste una ricetta buona per tutte le volte. Oggi per me è stata quel pensiero volato a loro. Agli alluvionati. E una preghiera: Signore concedi loro la forza di ricominciare, e il potere di mandare a quel paese il cornuto ogni volta che verrà a bussare alla loro porta. E fa' che possano tornare presto alle loro case.
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15 Maggio 2002
Ci sono sorrisi e sorrisi. Io ti auguro quelli veri. Quelli che ti partono dalla pancia o dal cuore e ti esplodono in faccia. Quelli che ti accendono gli occhi perché ami, ami davvero, con tutta te stessa. Quelli che non si risparmiano; che non si nascondono dietro un dolore, ma che lo vivono e lo affrontano. E lo accolgono. Quelli contagiosi. Quelli che sanno di perdono, di pazienza, di tenerezza. Quelli che hanno un profumo speciale, unico. Il profumo della vita. Della vita che si dona. Ti auguro, per sempre, un sorriso cosí, amore mio. Ho pianto e riso, il doppio dell'ultima volta che l'ho visto. Forse perché ero già preparata. Ma ho riso tanto e pianto ancora di più. Quando si dice che l'arte arricchisce l'anima è proprio vero; soprattutto quando l'artista fa dell'arte uno strumento per diffondere il bene, il bello, il vero, il profondo, la ciccia, la roba forte di cui nessuno parla più. Perché oggi invece fa più cool scrollare i video, lamentarsi della politica e guardare cazzate in tv, ma della roba seria della vita, quella che dice: "vuoi essere felice? c'è una strada se vuoi", nessuno ne parla più. Ieri sera sono uscita da quel teatro diversa da come ci sono entrata. Mi porto nel cuore tutto, ma un paio di passaggi in particolare, e non credo di spoilerare niente se vi faccio questa confidenza. Perché l'arte è un po' come la parola di Dio (se ho detto un'eresia, perdonatemi) arriva dritta al cuore, ogni volta in modo diverso e ad ogni persona in modo diverso. Oggi può dirmi una cosa, ma domani, che non sono la stessa di oggi, un'altra. L'arte è così. Guardare un quadro, ascoltare una sinfonia o assistere ad un'opera teatrale può portare in sé qualcosa che ci cambia, può essere qualcosa che fa vibrare le corde della nostra anima. Se noi lo vogliamo. E questo è quello che mi porto nel cuore (parafrasato): E se niente fosse vero? E se Dio non esistesse e se fosse tutto una grande balla? Avrebbero vinto gli altri, è vero. Ma tu hai fatto, comunque, ciò che ti ha reso felice. Dio lo segui perché ti rende felice, non perché qualcuno ti ha obbligato a seguirlo. e anche: Cos'è fare l'amore? Cos'è l'amore? È una cosa tipo quella vecchissima lampadina di Chaillet accesa da più di 100 anni. Che non si spegne perché ce ne prendiamo cura, perché la trattiamo con dolcezza, con rispetto, come un dono prezioso da non sciupare. E perché nei momenti duri, quando sembrava dare poca luce, non ci siamo stancati di lei, non l'abbiamo cambiata con una nuova, buttandola nell'immondizia. E l'abbiamo portata a letto e portata a letto e portata a letto per anni, anche quando non parlava più, anche quando già non camminava più e aveva la bocca aperta, e non emetteva un suono. E l'abbiamo presa in braccio e portata a letto e portata a letto...fino all'ultimo dei nostri giorni. Perché questo è fare l'amore: guardare negli occhi la persona amata anche quando quegli occhi non guardano più, e trovarci sempre lei, la persona che abbiamo scelto di sposare, per sempre. In eterno. Grazie Giovanni Scifoni - Santo piacere, Dio è contento quando godo Newsletter del 5/05/2023
Nel mio immaginario esiste un tempo perfetto. Esistono giornate perfette, fatte di una serie di eventi positivi, che mi ricaricano e mi fanno sentire vivo. Nella mia mente esiste un modo giusto di affrontare la difficoltà e la fatica. Una progressione in cui ogni azione è al momento giusto, al posto giusto, con il colore giusto. Eppure... Eppure esistono periodi di grande insoddisfazione. Di grande povertà umana e spirituale. In cui il disegno delle tue giornate perfette e atteggiamenti di vita perfetti diventano una condanna ed un peso, anziché essere una ispirazione a fare meglio. La battaglia è interiore perché la realtà batte sempre il mondo delle idee. E sebbene vorrei essere diverso, abitare in un luogo diverso e ... amare in un modo diverso, per quanto cerchi di essere migliore ci sono alcune cose che sono caratteristiche di me. Come la statura, le gambe o il colore degli occhi definiscono chi sei. Così alcuni tratti della tua interiorità rimarranno con te per sempre nella loro imperfezione, nella loro incompletezza. Quanto coraggio hai a guardarti ancora una volta allo specchio e notare quelle profonde imperfezioni del tuo carattere, della tua vita, del tuo stare con gli altri? Se lo vorrai, un passo alla volta, potrai smussare gli angoli più vivi del tuo essere. Ma alcune cose sono così profondamente radicate in te che... chissà se saprai essere migliore? La fatica di ogni giorno è nell'accettare che tutto questo fa parte di te ma non è tutto di te. Il cuore, la parte centrale che fa prendere ad ogni cosa il suo fine ultimo, è che sei un figlio, una figlia amata. Amata -- non un caso -- non il frutto di un gesto sbadato. Non sei frutto del caos. Per quanto piccolo posso sembrarti il tuo contributo nel mondo sappi che, se tu non ci fossi, non sarebbe lo stesso. Non sarebbe lo stesso senza i tuoi occhi. Quegli occhi che sanno scorgere la semplicità del mondo mentre io sono un uomo complesso. Non sarebbe lo stesso senza le tue attenzioni per le piccole cose. Non sarebbe lo stesso senza il tuo orecchio, capace di distinguere e ascoltare i piccoli movimenti del cuore. L'egoismo e il coraggio non sono nel compiere gesti eclatanti ma nel guardarti dentro e credere che quella piccola scintilla in fondo al cuore -- per quanto piccola! -- se curata e sostenuta può essere l'inizio di un fuoco. Un fuoco che inizialmente donerà calore al tuo cuore, poi alla tua vita interiore. E se continuerai a prendertene cura potrà divenire rifugio per chi passerà accanto a te. Sarà luogo di sostegno per te e per gli altri. La fatica di ogni giorno è prendersi cura di quella scintilla, ogni giorno, tutti i giorni. E quando i giorni saranno difficili, e ti sembra assurdo vivere così, ti occuperai solo di tenere in vita quella piccola scintilla, quella piccola fiammella... e quando il sole splenderà sarai capace di fare un passo in più, di godere di più di quel calore, di farlo crescere dentro di te. Saprà essere casa accogliente. Ti è chiesto solo un piccolo passo oggi. Il rischio è che tu possa essere felice. A venerdì prossimo. Francesco di 5 pani e 2 pesci (per iscriversi alla loro newsletter clicca qui) Non sono una persona facile, né umile, né tanto meno sottomessa (nel senso più bello e sconosciuto di questo termine).
Se fai qualcosa che mi disturba, mi salta subito la mosca al naso. Oggi un po' ho imparato a contare fino a dieci - e questo è già un progresso - ma poi quattro paroline in fila te le devo dire: e inizio l'elenco di quello che non mi piace, quello che non condivido, degli errori che hai fatto. Da principio parto in quarta, perché io Voglio Avere Ragione, perché pare che potrei morire sennó. L'obiettivo è uscirne vincente e l'altro sdraiato per terra a leccarsi le ferite nella consapevolezza dei suoi errori. Davvero, in tutta onestà, queste sono le premesse, il desiderio primitivo che ho nel cuore, soprattutto nel rapporto più delicato: nel mio matrimonio. La voce si alza, la rabbia parte; dalla pancia arriva alla testa: “ho ragione e tu hai torto e adesso te lo faccio capire io!!" Un fiume in piena di parole e ragionamenti e polemiche e punzecchiate. Poi, all'improvviso succede qualcosa. Qualcosa che non è farina del mio sacco, perché io sono sempre quella di sopra con il desiderio primitivo di stenderti ko, di avere ragione e tu puoi pure morí lì steso per terra. Qualcosa che posso solo annoverare tra le grazie che mi ha fatto quel Dio che tanti descrivono come "la forma bigotta della vita, l'oppio dei popoli o quello a cui solo gli idioti credono ancora" e via discorrendo... Forse hanno ragione loro. Forse davvero sono bigotta, forse davvero sto allucinata, forse davvero sono un'idiota. Ma le chiacchiere stanno a zero quando la mia rabbia sale a duemila, quando l'unico desiderio è atterrare mio marito al pavimento - o forse l'ho già fatto - ma ascolto una "parola" e arriva una pace inaspettata, a volte neanche desiderata. Cos'è 'na droga? O è Dio che apre la porta del mio cuore ed entra? (”è la seconda che hai detto" cit.) Ci sono dei momenti in cui non sono capace di avere cura del mio matrimonio, altri che proprio non mi va - sempre per quel mio desiderio primitivo, difficile, quasi impossibile da sedare. Ma se do il permesso a Dio di entrare nel mio cuore Lui fa miracoli...mi fa vedere cose che il mio egocentrismo obnubila completamente. Ed è come se, davanti a me, si materializzasse una bilancia. O una freccia, che oscilla a destra e a sinistra. Tic toc. Tic toc. Da una parte il mio senso di giustizia, la rivendicazione delle mie ragioni, il desiderio di affermazione. La voglia di vincere. Dall'altra, semplicemente, il mio matrimonio. Lo osservo. Immobile. E le labbra si chiudono, il cuore si dilata. E di colpo tutto si acquieta. Lo guardo. Ancora. E la mia fame di vittoria si placa, la mia voglia di strapparti dalle labbra le paroline più soddisfacenti del mondo ("hai ragione"), si spegne; tutto perde di importanza davanti a "noi". "Noi" diventa la priorità assoluta. La parolina in cima alla lista. Come una mamma quando vede il suo bimbo in procinto di cadere. Lui. L'unico pensiero. Corre, lo sorregge, lo rialza in piedi e lo lascia di nuovo andare, libero. Anche di cadere di nuovo. Ecco. "Noi" diventa la priorità, il centro della mia attenzione. Delle mie cure. Delle mie vittorie. Delle mie affermazioni. Delle mie ragioni. Sarò idiota, sarò fatta, sarò bigotta, ma uscire da me stessa e andare verso l'altro, anche quando non mi va, è il miracolo che salva tutti i giorni il mio matrimonio, se e quando do a Dio il permesso de fallo 'sto miracolo. Tutto questo vociare su Giovanni Paolo II non mi ha smosso di una virgola da una e una sola certezza: io, oggi, sono quella che sono per la fede che lui aveva in Dio e in noi, ragazzi di quel tempo. Ci ha accompagnati fino allo stremo delle sue forze. Nessuna cattiveria su di lui potrà mai insabbiare tutto il bene, l'amore, la forza, la caparbietà con cui ci ha portati tutti a Cristo. Qui c'è, per iscritto, tutta la mia gratitudine, per questo padre di tanti ragazzi come me. --------------------------- Caro Papa, anzi dolcissimo papà. Parlo per bocca di tutti i tuoi figli nello Spirito. Siamo cresciuti con te, la nostra fede si è fortificata con te, siamo rimasti attaccati a Cristo attraverso le tue mani; ti abbiamo seguito per il mondo perché in te abbiamo scorto l'abbraccio di Gesù, nostro dolce fratello. Le nostre famiglie sono fiorite con te, i nostri figli sono figli del tuo amore per noi. L'amore che conserviamo per te nei nostri cuori è l'amore che ci porta in volo verso Cristo. Per te con te e in te, noi andiamo gioiosi verso il Padre. Grazie papà di averci amato. Prega per noi. I tuoi amati figli ----------------------------- GPII e le mie Gmg, sorgenti di acqua viva. Il mio seguire Giovanni Paolo in tutti i pellegrinaggi è sempre stato molto naturale. Mi spingeva il desiderio di respirare quell'aria, sentire la sua dolce e santa presenza. Nel suo sguardo, nel suo sorriso, nella sua voce ho sempre trovato un padre con i tratti caratteristici del mio papà terreno e la santità del mio Padre celeste. E stare con lui è stato proprio come stare con mio papà. Lui, che mi strizzava dagli abbracci e mi accarezzava la testa, ma sapeva anche tirare fuori, quando serviva, lo sguardo burbero e la voce grossa per riacchiapparmi dalle mie brutte sbandate. Spesso mi sono chiesta perché vivendo a Roma e quindi avendolo sempre a portata di mano, avessi avuto la necessità di andare vagabondando per il mondo ad incontrarlo? Non mi sono mai data una risposta certa, ma certo è che quei pellegrinaggi fino in capo al mondo sono stati, per me, come degli appuntamenti galanti con un fidanzato (....si andrebbe pure in capo al mondo, per qualche manciata di secondi con lui, o no? ). Questo è uno dei miracoli che Giovanni Paolo II ha compiuto in me: mi ha fatto innamorare, come lo era lui, della sua sposa, la Chiesa. Ed è per questo che ogni anno, dal 1991, ho voluto essere lì, ovunque andasse, ovunque la Chiesa mi chiamasse. E non è che si andava in prima fila o sotto il palco. Il posto che ti spettava, era quello che trovavi quando arrivavi, magari dopo giorni e giorni di viaggio e magari ne trovavi uno in fondo, dietro alla collinetta, dove proprio non si vedeva niente e si sentiva pure a tratti. Ma davvero non ci importava niente, perché l'abbraccio del Papa non aveva limiti, arrivava dappertutto, e t'acchiappava, e lo sentivi....eccome se lo sentivi!!! E noi eravamo lì in quella folla di cuori palpitanti, perché in un periodo così complesso della nostra vita, come l'adolescenza o dintorni, in cui gli adulti ci giudicavano per le nostre ribellioni, per le nostre immaturità, per le nostre indecisioni e per le nostre mancanze, Giovanni Paolo II ci aspettava lì, ogni anno a quelle veglie e ogni volta ci gridava forte che lui credeva in noi, che scommetteva sulle nostre vite come nessun altro avrebbe fatto; che eravamo il suo futuro, le sue sentinelle del mattino, che ci voleva annunciatori e testimoni dell'Amore di Dio, al mondo intero!!! Mai nessuno ha avuto tanta fiducia in me come l'ha avuta lui! E vi dico la verità, in questa fiducia ci ho creduto profondamente ed ho cominciato a pensare che veramente io "potevo prendere in mano la mia vita e farne una cosa meravigliosa". E l'ho fatto. Grazie a lui. Io avevo 26 anni e lui 23, e ne sono passati 27 da quel primo bacio. Io avevo alle spalle un po' di casini, lui no. Qualcuno esultava, qualcuno tremava.
Arrivavo da mesi di scrutatio, che erano iniziate in quel gennaio del 1996 con la missione a San Lorenzo in Damaso. "Scrutatio, missione...ma de che stai a parla'?" qualcuno forse si sta chiedendo. Dunque...per chi non è cristiano, vi rassicuro che quanto sto per dirvi non è conseguenza di una botta in testa e men che meno assunzione di stupefacenti, ma in quei mesi Dio davvero mi parlò. E tanto. Eh sì, perché Dio parla eccome, e mica solo a me. Parla a tutti. Poi magari può starsene anche zitto per un bottissimo di tempo, ma solo dopo che, almeno per una volta, l'abbiamo sentito - a volte basta anche mezza. E poi ci aggrappiamo a quella mezza volta e ci crediamo e combattiamo contro i dubbi (normali e anche necessari sti dubbi) perché tanto possiamo fare memoria di quelle profonde e meravigliose chiacchierate che abbiamo intavolavato con Lui, appunto, le suddette scrutatio (scrutare significa, in parole povere povere, prendersi un po' di tempo per leggere il libro che racconta di lui - che è scritto anche in collaborazione con lui eh - e ascoltare cosa vuole dirmi). La missione, invece, è stata una cosa fatta con la mia parrocchia (e se volete, ne parlo un po' qui). Insomma sono arrivata a ridosso di quel 15 aprile devastata, impaurita, ma sostenuta e preparata da tante parole. La mia paura più grande si è affacciata a gennaio, quando avevo capito che avrei dovuto chiudere la relazione con quel ragazzo che, da lì a pochi mesi, avrei sposato. Ero terrorizzata. Anzi, era la parola "LASCIARE" che mi terrorizzava. E indovinate quel gran furbo del nostro Amico del piano di sopra, con quale parola mi ha tartassato (volevo dire, consolato) incessantemente in quei mesi? "Non c'è nessuno che abbia LASCIATO casa o fratelli o sorelle.... che non riceva già al presente cento volte tanto in case e fratelli e sorelle ..." Ho conservato il diario di quel lontano 1996 per non dimenticare. Per non rischiare, dopo anni, di pensare che fosse tutto frutto della mia fantasia. Volevo che restasse un memoriale scritto nero su bianco. Il centuplo. Mi stava promettendo il centuplo dopo aver LASCIATO. Poi arrivarono altre paure, in particolare quella di fidarmi di questo nuovo dono. "Andrà bene? Sarà lui quello giusto? Starò perdendo altro tempo?" e mi accompagnò e ancora, mi consolò con il vangelo sulla provvidenza. "Osservate come crescono i gigli del campo: non lavorano e non filano. Eppure io vi dico che neanche Salomone, con tutta la sua gloria, vestiva come uno di loro. Ora se Dio veste così l’erba del campo, che oggi c’è e domani verrà gettata nel forno, non farà assai più per voi, gente di poca fede?" E questo mi sarebbe, già, bastato. Ma arrivò una nuova paura: non sentirmi all'altezza di questo centuplo, perché di casini ne avevo fatti troppi. Ma puntuale, come un orologio svizzero, anzi no, puntuale come le dolci parole dell'amico che si alza con te all'una di notte ad asciugarti le lacrime, arrivò Isaia: «Non ricordate piú le cose passate, non considerate piú le cose antiche: Ecco, io sto per fare una cosa nuova; essa sta per germogliare; non la riconoscete?». E poi finalmente mi fidai, e mi resi conto che Corrado era davvero il mio centuplo e le parole del profeta Aggeo "considerate bene da oggi in poi, se il grano verrà a mancare nei granai, se la vite, il fico, il melograno, l'olivo non daranno più i loro frutti, da oggi in poi io vi benedirò!" mi risuonarono come quelle di un padre premuroso: "Francesca, figlia mia, vedi? Ho mantenuto la promessa, ti ho dato il centuplo, e da oggi in poi, qualsiasi cosa accadrà io lo benedirò". E così ha fatto, fino ad oggi, per 27 anni. Capisco che si possa restare scettici davanti a tutto questo. Si può pensare che è tutta suggestione, che è pura immaginazione. Capisco che qualcuno puó pensare di chi dice di avere un dialogo con Dio che non ha tutte le rotelle a posto. Lo capisco. Ma io, pensate un po', ci ho buttato tutta la mia vita dentro questa roba qui da matti senza rotelle. E sono proprio i miei dialoghi con Lui che mi accompagnano, che mi consigliano, che mi confermano o mi mettono in discussione. Ed è ascoltando lui che ho la forza di chiedere perdono e di ricominciare ogni giorno da zero e come se fosse l'ultimo che vivo. Ed è con Lui e sulla sua fedeltà che "fortissimamente volli" costruire il matrimonio con mio marito, Corrado, il mio centuplo. Sono una mamma.
Ricordo il primo battito del suo cuore, i calci, il suo singhiozzo. L'ho sentito quando si faceva spazio, piano piano nel mio grembo. Era ancora lì dentro la mia pancia, non sapevo chi era, com'era fatto, ma già faceva parte della mia vita, dal primissimo momento. Attaccato al mio cordone ombelicale, io e lui, lui ed io. Una simbiosi che inizia proprio da lì, in quei lunghissimi nove mesi, durante i quali soffri, gioisci, ti stanchi e ti riposi, hai paura e attendi...sempre insieme. Se il mio cuore batte veloce, anche il suo; se sono triste lui lo è con me, se sono felice, lui sobbalza. Se non lo amo, lui ne porterà le ferite. Ogni gravidanza tutto ricomincia. Diverso, ma uguale. Una stretta simbiosi, legati come una catena che solo il tempo aiuterà a sciogliere. Un ricordo vivo che non cessa mai di esistere. Un fuoco che si accende ogni volta che torna alla memoria. Noi esseri umani siamo variegati, diversi, per carattere, per fisionomia, per spiritualità. Ma se sei un papà lo sei e lo rimani a vita. Se sei una mamma, sei una mamma per sempre. In qualunque situazione, in qualunque momento. E come una mamma non smette mai di essere mamma, un figlio non smette mai di essere un figlio, proprio il tuo figlio. Ma se dopo quei nove interminabili mesi nei quali i dna si sono mescolati, i tessuti toccati, il sangue mischiato e confuso, le anime unite, se una mamma a quel punto ha il coraggio di guardare negli occhi suo figlio ancora sporco, bagnato e piangente e di dirgli: "Tu sei destinato ad altre persone", se una madre riesce a fare questo, mi chiedo fin dove sarà capace di arrivare questa nostra povera umanità? Stamattina leggevo, su un post di un progetto su Dante di Franco Nembrini, una frase (scusate l'ignoranza ma non so di chi sia) che secondo me descrive drammaticamente chi crede che l'utero in affitto sia un'opzione possibile: "Chi acconsente al male perde la propria struttura umana". È proprio così. Se non si concepisce come "male" l'atto di "regalare" un figlio (che poi non è mai regalare, perché dietro c'è un buisness che non si ha la benché minima idea), allora significa che l'uomo ha già perso la sua anima. Che l'uomo non ha già più nulla di umano. Perché, invece, dovrebbe essere come dare via il proprio cuore, il cervello, i polmoni mentre siamo ancora in vita. Dovrebbe essere come finire l'esistenza attaccati ad una macchina. Questo dovrebbe essere vendere o regalare un figlio. Perché questo è: il morire lento dell'anima, la nostra e del nostro bambino, forse inconsapevolmente. Ma sarà la vita stessa, alla fine, a chiedercene il conto, state certi, non mancherà. Sono maestra dal 1989, avevo 19 anni (la "vocazione" da quando ne avevo 6). Ho ancora in mente molti dei visi dei miei bimbi. Alcuni oggi li incontro per strada trentenni. Ancora ricordo qualche nome anche di quelli più vecchi, che peró il tempo cerca di strapparmi via.
Quanti bambini. Ognuno con la sua valigetta, con la sua esperienza, con la sua vita. Con le sue fragilità e la sua diversità. Con le sue gioie e le sue sofferenze. E ognuno di loro, ognuno, con la sua famiglia, salda, sgangherata, a pezzi o modello perfetto di unità. Figli dell'alta borghesia, figli di carcerati, di contadini e di impresari. Figli di mafiosi e figli di onesti lavoratori. Quanti volti, quante vite. Figli unici, figli adottati, figli di famiglie numerose. Figli orfani e figli di separati; figli di un papà, ma conviventi con altri tre dei suoi figli di precedenti matrimoni. E fratelli e fratellastri. Soli con la mamma. Soli con i nonni o con gli zii. Quanti volti di storie diverse. Ognuna irripetibile. Unica. Da che insegno e anche da tanto tempo prima, quando ero io tra i banchi, sono sempre esistite famiglie diverse. E ancora prima del mio tempo, la guerra e la fame hanno portato tanti orfani e il '68 tanti divorzi. E' sempre esistito il dilemma per noi insegnanti: "come sfiorare queste vite". Condivido con piacere l'articolo di oggi di Massimo Gramellini e qui ne riporto uno stralcio: "Quando persi mia madre, la maestra strappò da tutti i sussidiari la pagina che parlava di mamme. Aveva agito per proteggermi, e ancora adesso la purezza delle sue intenzioni mi commuove, però la sofferenza mi aspettava comunque all’uscita da scuola, quando mi ritrovavo a essere l’unico senza una madre ad attenderlo. Un bimbo può partecipare alla Festa del Papà anche se non ha un papà: magari in compagnia di un altro adulto a cui vuole bene. Includere significa aggiungere, non abolire". La mancanza di una figura genitoriale nel mondo di un bambino, non puó essere presa come pretesto per eliminarla anche dal mondo degli altri. Puó, invece, essere un momento fruttuoso, di riflessione. Di comunione. Di appoggio. Di condivisione. Chiaramente esiste anche un tempo che è sacro. Intoccabile. Un tempo del dolore, un tempo da difendere. Un tempo di morte, di silenzio, di vuoto in cui il bambino va tutelato e consolato. E l'insegnante è lì. Pronta ad accogliere, ma anche a preparare il terreno; pronta a seminare, ma anche a zappare attorno alle radici; pronta a sostenere e accudire, ma mai a mentire, mai. L'insegnante è colei che lentamente, delicatamente, pazientemente, dolcemente, conduce al desiderio della ricerca della verità. Della verità che c'è dentro ciascuno di noi. E nelle nostre radici c'è parte fondante di quella verità. E guai a chi si arroga il diritto di nascondergliela. Un paio di giorni fa passavo in macchina vicino ad un liceo. Erano le 7:50. Un giovane studente, zaino in spalla e passo lento, mandava giù l'ultimo goccio di birra prima di entrare in classe. Diciassette o diciotto anni. Una faccia pulita, imperscrutabile ma pulita. Un bravo ragazzo. Perché non ci illudiamo che solo i figli di famiglie malandate possano essere soggetti a rischio.
Nessuno pensi che si diventa alcolizzati soltanto in situazioni di vite disastrate. Non è affatto così. Succede anche ai ragazzi di buona famiglia. A volte accade per un'infantile inconsapevolezza, semplicemente un bicchierino dopo l'altro. Spritzino dopo spritzino. Perché l'alcool è la più subdola tra tutte le dipendenze. Costa poco, è facile da reperire e molti ragazzi non sanno (veramente neanche i genitori lo sanno. Ricordo un 31 dicembre di qualche anno fa un papà stava aiutando il figlio quattordicenne, nei preparativi per il capodanno e il suo aiuto consisteva nel riempire il carrello del figlio di superalcolici), insomma molti ragazzi non sanno che iniziare è facilissimo (una sbronza con gli amici che vuoi che sia, due sbronze con gli amici che vuoi che sia, tre sbronze, quattro sbronze che vuoi che sia..) e smettere è quasi impossibile. E ci sono ragazzini di buona famiglia che iniziano a bere perché credono che farlo, ad esempio, li renda meno introversi. Perché dopo un paio di bicchieri si rilassano, sono meno costipati nelle loro paure, nelle loro timidezze e il pudore lascia finalmente spazio ad un po' di sfrontatezza. E sembra che tutto vada alla grande. E in effetti è così, è tutto fin troppo bello. Solo un goccio in più, per lasciarti andare. E poi ti diverti. E ridi, ridi molto di più. Ride anche chi per ridere, nel quotidiano, di solito fa tanta fatica. Peccato però che a ridere non sei realmente tu, ma il tasso alcolico che ti scorre nelle vene e che una volta passata la sbornia, la tristezza, la paura, il dolore che ti eri illuso fossero spariti, tornano. Più incazzati di prima. E ci sono ragazzini di buona famiglia che sono stati feriti presto, troppo presto. Per loro, invece, bere significa sperare, stavolta consapevolmente, di dimenticarsi tutto il dimenticabile. Una lobotomia della durata di una manciata d'ore. Peccato che poi in quella manciata d'ore spesso non si ricordano neanche come sono tornati a casa e li lacera l’amnesia di non sapere cosa hanno fatto la sera prima. E allora bevono anche il giorno dopo e dopo ancora. E quello è il momento in cui il rischio di non uscirne più, diventa praticamente una certezza. Quanti ragazzi di buona famiglia ci sono cascati. Io pure ci sono cascata, con tutte le scarpe. Una ragazzina di buona famiglia, ferita presto, troppo presto per riuscire a reggere la botta senza cercare disperatamente una facile e repentina via di fuga da quel dolore. E non so voi, cioè non so se pure voi ci siete cascati con tutte le scarpe (perché è molto più frequente di quanto si pensi) ma per me quel dolore aveva una forma, la forma dell'amore. Mancato, ferito, perso, deluso, tradito, violentato, come volete voi, ma aveva la forma dell'amore. Un amore svuotato. Un vuoto che ci si sente obbligati a riempire, altrimenti esci pazzo. E non so voi, ma dentro me quel vuoto non si riempiva mai. Poi uno tsunami mi ha travolto l'anima. Nel 1991, a un pellegrinaggio a Czestochowa. Lo so, lo so..."la Chiesa, Dio, i preti oramai è robba d'antiquariato" mi state sgridando. Ma voi, rifiutereste un amore tanto grande da riempire quel vuoto incolmabile che vi portate dentro? Ma voi, rifiutereste un amore tanto potente da donarvi la forza di rimettervi in piedi e ri innamorarvi di nuovo della vita, di quella vita che oramai è spogliata di tutto? Non so voi, ma io senza quella Chiesa, senza quei sacerdoti, senza quel Dio che voi chiamate obsoleto, oggi non sarei qui. Felice. Piena. Amata. Innamorata. Grata. E non so voi, ma io a quei ragazzini come me, augurerei di non cascarci mai con tutte le scarpe, ma se dovessero inciampare, non so voi, ma io gli augurerei di trovare qualcuno che riempia quel vuoto infinito d'amore che si portano dentro, qualcuno chiunque, anche fosse quell'antiquato di Dio. |