Francesca Centofanti
Da cosa deriva il malumore? Da cosa dipende l'irrascibilitá, la poca pazienza, l'incapacità di trattenere le parole? La rabbia, la tristezza?
Cosa scatta nella testa quando siamo in macchina e ci sfiora - solo qualche volta - il desiderio pressante che quell'incapace del conducente si dissolva nel nulla? O quando fin dal risveglio capiamo, senza aver neanche poggiato un piede per terra, che sarà una pessima giornata; che il sole ancora non è sorto sulle nostre teste, ma noi già non sopportiamo nessuno e ci giustifichiamo goffamente dietro l'assenza di caffeina. Perché poca roba ci rende davvero felici, e quando ci capita, è solo un attimo che appena lo abbiamo assaggiato, vola via? O che succede, ad esempio, quando ci rubano il posto nella fila, senza dirci né grazie, né permesso, né lei è moltissimo gentile, o senza dirci "ci mettiamo con la faccia sotto i tuoi piedi, senza nemmeno chiederti di stare fermo" (per pochi intenditori) e allora la nostra indole ci spinge a vomitare addosso a quelle persone tutta la nostra rabbia? Perché subiamo questa improvvisa mutazione? Per un posto in fila? Per una freccia non messa? Perché è verde da un millesimo di secondo e quell'incapace di prima non parte? Perché tu proprio non mi capisci? Perché non fai come dico io? Perché la mia vita, non doveva andare così? Perché non è giusto? La nostra rabbia è spesso giustificata da un fatto, da una persona, da un evento fuori di noi. È sempre colpa di qualcuno o qualcosa se noi siamo arrabbiati, tristi, delusi, mortificati. Impazienti. Ed è obiettivamente così, solitamente. Una persona compie un'azione brutta nei nostri confronti e noi reagiamo con la rabbia. Succede un evento triste, e ci intristiamo. Niente di più semplice e lineare. Ma io vorrei fare un passetto avanti, ed è questo: dopo che una persona ha compiuto un'azione brutta nei miei confronti e mi arrabbio, dopo? Cosa accade? Di solito l'altra persona a sua volta si arrabbia. E poi iniziamo a litigare. E se siamo violenti, arriviamo alle offese, in alcuni casi alle mani. Oppure se siamo amici, scompariamo semplicemente dalla vita dell'altro, o infantilmente lo blocchiamo su WhatsApp facebook o Twitter e pensiamo così di aver trovato la soluzione (cancellata la persona, cancellato il fastidio). Ma dopo tutto questo, come stiamo? La nostra rabbia ha davvero risolto quella situazione? Dico sempre ai miei alunni che la rabbia è un'emozione che non va repressa, perché è solo una tra le tante; ma che dobbiamo imparare ad incanalarla nel modo migliore (tradotto in bambinese). Se sei arrabbiato, costruisci, invece di demolire. E se hai demolito, come quasi sempre succede, aggiusta, ricomponi, riattacca. E così anche nei fatti della vita. Quelli brutti. Quelli che ci chiediamo se Dio davvero ce l'ha con noi. Quelli che ci viene da dirGli "volgi il tuo sguardo per un attimo su qualcun altro per piacere". Se in quei frangenti, dopo esserci giustamente arrabbiati, dopo esserci giustamente sentiti delusi, mortificati, schiacciati, avessimo la grazia di comprendere che non è solo ciò che arriva fuori di noi a farci male. Se capissimo che dipende anche da quanto spazio, quanto tempo concediamo a questi fatti e a queste persone di continuare a farci male. A restare lì. A metastatizzare. Per anni ho provato una rabbia profonda per una persona che mi ha ferito. Una rabbia assolutamente giustificata. Ma ho concesso a questa rabbia di adombrare gli anni più belli della mia adolescenza, quelli più spensierati. Gli ho concesso di farmi credere che la mia vita forse non era degna neanche di essere vissuta. Gli ho concesso tempo e gli ho concesso spazio per mettere radici dentro di me. Poi un giorno (ad un pellegrinaggio) un sacerdote mi disse una frase che mi sembró così stupida che ci misi un po' per decidermi a metterla in atto: "Scrivi un elenco di tutte le cose belle della tua vita, e quando ti alzi la mattina sii grata per quelle. Poi prova a chiedere di benedire la vita della persona che ti ha ferito e benedire questa situazione". Non è stato affatto facile. E non credo sia sempre fattibile. Spesso si ha bisogno di aiuti concreti. Ma in quel momento, per me, in quel tratto della mia storia, la gratitudine che avevo dentro (e che non sapevo affatto di avere) mi ha salvato. Mi ha stanato da quel buco in cui le metastasi della mia anima mi avevano imprigionato. E le ha curate. Molto lentamente. Oggi, alti e bassi, cerco di non dimenticare quell'esperienza. Oggi ho compreso che, a volte, ci è concesso di combattere ciò che ci travolge da fuori, con ciò che, per grazia, Dio dona - a tutti - di avere dentro: la gratitudine.
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