Francesca Centofanti
Sono una mamma.
Ricordo il primo battito del suo cuore, i calci, il suo singhiozzo. L'ho sentito quando si faceva spazio, piano piano nel mio grembo. Era ancora lì dentro la mia pancia, non sapevo chi era, com'era fatto, ma già faceva parte della mia vita, dal primissimo momento. Attaccato al mio cordone ombelicale, io e lui, lui ed io. Una simbiosi che inizia proprio da lì, in quei lunghissimi nove mesi, durante i quali soffri, gioisci, ti stanchi e ti riposi, hai paura e attendi...sempre insieme. Se il mio cuore batte veloce, anche il suo; se sono triste lui lo è con me, se sono felice, lui sobbalza. Se non lo amo, lui ne porterà le ferite. Ogni gravidanza tutto ricomincia. Diverso, ma uguale. Una stretta simbiosi, legati come una catena che solo il tempo aiuterà a sciogliere. Un ricordo vivo che non cessa mai di esistere. Un fuoco che si accende ogni volta che torna alla memoria. Noi esseri umani siamo variegati, diversi, per carattere, per fisionomia, per spiritualità. Ma se sei un papà lo sei e lo rimani a vita. Se sei una mamma, sei una mamma per sempre. In qualunque situazione, in qualunque momento. E come una mamma non smette mai di essere mamma, un figlio non smette mai di essere un figlio, proprio il tuo figlio. Ma se dopo quei nove interminabili mesi nei quali i dna si sono mescolati, i tessuti toccati, il sangue mischiato e confuso, le anime unite, se una mamma a quel punto ha il coraggio di guardare negli occhi suo figlio ancora sporco, bagnato e piangente e di dirgli: "Tu sei destinato ad altre persone", se una madre riesce a fare questo, mi chiedo fin dove sarà capace di arrivare questa nostra povera umanità? Stamattina leggevo, su un post di un progetto su Dante di Franco Nembrini, una frase (scusate l'ignoranza ma non so di chi sia) che secondo me descrive drammaticamente chi crede che l'utero in affitto sia un'opzione possibile: "Chi acconsente al male perde la propria struttura umana". È proprio così. Se non si concepisce come "male" l'atto di "regalare" un figlio (che poi non è mai regalare, perché dietro c'è un buisness che non si ha la benché minima idea), allora significa che l'uomo ha già perso la sua anima. Che l'uomo non ha già più nulla di umano. Perché, invece, dovrebbe essere come dare via il proprio cuore, il cervello, i polmoni mentre siamo ancora in vita. Dovrebbe essere come finire l'esistenza attaccati ad una macchina. Questo dovrebbe essere vendere o regalare un figlio. Perché questo è: il morire lento dell'anima, la nostra e del nostro bambino, forse inconsapevolmente. Ma sarà la vita stessa, alla fine, a chiedercene il conto, state certi, non mancherà.
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Sono maestra dal 1989, avevo 19 anni (la "vocazione" da quando ne avevo 6). Ho ancora in mente molti dei visi dei miei bimbi. Alcuni oggi li incontro per strada trentenni. Ancora ricordo qualche nome anche di quelli più vecchi, che peró il tempo cerca di strapparmi via.
Quanti bambini. Ognuno con la sua valigetta, con la sua esperienza, con la sua vita. Con le sue fragilità e la sua diversità. Con le sue gioie e le sue sofferenze. E ognuno di loro, ognuno, con la sua famiglia, salda, sgangherata, a pezzi o modello perfetto di unità. Figli dell'alta borghesia, figli di carcerati, di contadini e di impresari. Figli di mafiosi e figli di onesti lavoratori. Quanti volti, quante vite. Figli unici, figli adottati, figli di famiglie numerose. Figli orfani e figli di separati; figli di un papà, ma conviventi con altri tre dei suoi figli di precedenti matrimoni. E fratelli e fratellastri. Soli con la mamma. Soli con i nonni o con gli zii. Quanti volti di storie diverse. Ognuna irripetibile. Unica. Da che insegno e anche da tanto tempo prima, quando ero io tra i banchi, sono sempre esistite famiglie diverse. E ancora prima del mio tempo, la guerra e la fame hanno portato tanti orfani e il '68 tanti divorzi. E' sempre esistito il dilemma per noi insegnanti: "come sfiorare queste vite". Condivido con piacere l'articolo di oggi di Massimo Gramellini e qui ne riporto uno stralcio: "Quando persi mia madre, la maestra strappò da tutti i sussidiari la pagina che parlava di mamme. Aveva agito per proteggermi, e ancora adesso la purezza delle sue intenzioni mi commuove, però la sofferenza mi aspettava comunque all’uscita da scuola, quando mi ritrovavo a essere l’unico senza una madre ad attenderlo. Un bimbo può partecipare alla Festa del Papà anche se non ha un papà: magari in compagnia di un altro adulto a cui vuole bene. Includere significa aggiungere, non abolire". La mancanza di una figura genitoriale nel mondo di un bambino, non puó essere presa come pretesto per eliminarla anche dal mondo degli altri. Puó, invece, essere un momento fruttuoso, di riflessione. Di comunione. Di appoggio. Di condivisione. Chiaramente esiste anche un tempo che è sacro. Intoccabile. Un tempo del dolore, un tempo da difendere. Un tempo di morte, di silenzio, di vuoto in cui il bambino va tutelato e consolato. E l'insegnante è lì. Pronta ad accogliere, ma anche a preparare il terreno; pronta a seminare, ma anche a zappare attorno alle radici; pronta a sostenere e accudire, ma mai a mentire, mai. L'insegnante è colei che lentamente, delicatamente, pazientemente, dolcemente, conduce al desiderio della ricerca della verità. Della verità che c'è dentro ciascuno di noi. E nelle nostre radici c'è parte fondante di quella verità. E guai a chi si arroga il diritto di nascondergliela. Un paio di giorni fa passavo in macchina vicino ad un liceo. Erano le 7:50. Un giovane studente, zaino in spalla e passo lento, mandava giù l'ultimo goccio di birra prima di entrare in classe. Diciassette o diciotto anni. Una faccia pulita, imperscrutabile ma pulita. Un bravo ragazzo. Perché non ci illudiamo che solo i figli di famiglie malandate possano essere soggetti a rischio.
Nessuno pensi che si diventa alcolizzati soltanto in situazioni di vite disastrate. Non è affatto così. Succede anche ai ragazzi di buona famiglia. A volte accade per un'infantile inconsapevolezza, semplicemente un bicchierino dopo l'altro. Spritzino dopo spritzino. Perché l'alcool è la più subdola tra tutte le dipendenze. Costa poco, è facile da reperire e molti ragazzi non sanno (veramente neanche i genitori lo sanno. Ricordo un 31 dicembre di qualche anno fa un papà stava aiutando il figlio quattordicenne, nei preparativi per il capodanno e il suo aiuto consisteva nel riempire il carrello del figlio di superalcolici), insomma molti ragazzi non sanno che iniziare è facilissimo (una sbronza con gli amici che vuoi che sia, due sbronze con gli amici che vuoi che sia, tre sbronze, quattro sbronze che vuoi che sia..) e smettere è quasi impossibile. E ci sono ragazzini di buona famiglia che iniziano a bere perché credono che farlo, ad esempio, li renda meno introversi. Perché dopo un paio di bicchieri si rilassano, sono meno costipati nelle loro paure, nelle loro timidezze e il pudore lascia finalmente spazio ad un po' di sfrontatezza. E sembra che tutto vada alla grande. E in effetti è così, è tutto fin troppo bello. Solo un goccio in più, per lasciarti andare. E poi ti diverti. E ridi, ridi molto di più. Ride anche chi per ridere, nel quotidiano, di solito fa tanta fatica. Peccato però che a ridere non sei realmente tu, ma il tasso alcolico che ti scorre nelle vene e che una volta passata la sbornia, la tristezza, la paura, il dolore che ti eri illuso fossero spariti, tornano. Più incazzati di prima. E ci sono ragazzini di buona famiglia che sono stati feriti presto, troppo presto. Per loro, invece, bere significa sperare, stavolta consapevolmente, di dimenticarsi tutto il dimenticabile. Una lobotomia della durata di una manciata d'ore. Peccato che poi in quella manciata d'ore spesso non si ricordano neanche come sono tornati a casa e li lacera l’amnesia di non sapere cosa hanno fatto la sera prima. E allora bevono anche il giorno dopo e dopo ancora. E quello è il momento in cui il rischio di non uscirne più, diventa praticamente una certezza. Quanti ragazzi di buona famiglia ci sono cascati. Io pure ci sono cascata, con tutte le scarpe. Una ragazzina di buona famiglia, ferita presto, troppo presto per riuscire a reggere la botta senza cercare disperatamente una facile e repentina via di fuga da quel dolore. E non so voi, cioè non so se pure voi ci siete cascati con tutte le scarpe (perché è molto più frequente di quanto si pensi) ma per me quel dolore aveva una forma, la forma dell'amore. Mancato, ferito, perso, deluso, tradito, violentato, come volete voi, ma aveva la forma dell'amore. Un amore svuotato. Un vuoto che ci si sente obbligati a riempire, altrimenti esci pazzo. E non so voi, ma dentro me quel vuoto non si riempiva mai. Poi uno tsunami mi ha travolto l'anima. Nel 1991, a un pellegrinaggio a Czestochowa. Lo so, lo so..."la Chiesa, Dio, i preti oramai è robba d'antiquariato" mi state sgridando. Ma voi, rifiutereste un amore tanto grande da riempire quel vuoto incolmabile che vi portate dentro? Ma voi, rifiutereste un amore tanto potente da donarvi la forza di rimettervi in piedi e ri innamorarvi di nuovo della vita, di quella vita che oramai è spogliata di tutto? Non so voi, ma io senza quella Chiesa, senza quei sacerdoti, senza quel Dio che voi chiamate obsoleto, oggi non sarei qui. Felice. Piena. Amata. Innamorata. Grata. E non so voi, ma io a quei ragazzini come me, augurerei di non cascarci mai con tutte le scarpe, ma se dovessero inciampare, non so voi, ma io gli augurerei di trovare qualcuno che riempia quel vuoto infinito d'amore che si portano dentro, qualcuno chiunque, anche fosse quell'antiquato di Dio. Mia mamma stamattina all'improvviso si è accorta di essersi scordata di farmi gli auguri per il mio onomastico. Non era mai successo in 50 anni. Anzi per la sua indole, la chiamata parte sempre in anticipo la sera prima - non sia mai si scordasse il giorno dopo.
Quindi stamattina alle 7:17 ha iniziato a squillare il telefono ogni 10 minuti perché non esisteva al mondo che gli auguri non venissero recapitati al destinatario. Ecco, avete capito, a casa mia gli onomastici hanno avuto quasi sempre più importanza dei compleanni (simmo 'e Napule paisá!). Perché il giorno della nascita, sí, è un dono, ma il nome è una scelta. Ponderata, pensata e di solito si porta appresso una storia. Io mi chiamo Francesca Romana, Giulia, Maria, Leopoldo. Vi chiarisco subito la scelta del nome "Leopoldo" perché immagino che già vi starete domandando (con le mani sulle guance e la bocca a urlo di Munk): "ma perché?" La risposta è abbastanza semplice: San Leopoldo Mandic è il santo della misericordia. È uno di quei piccoli uomini di Dio che guardava le persone con bontà, le aspettava - in tutti i sensi - e a quelli che incontrava, diceva: "venga venga usciremo buoni amici io e lei". Spesso gli rimproveravano: "Leopoldo tu sei troppo misericordioso" e lui li guardava senza scomporsi piú di tanto, e con l'indice puntato in alto rispondeva: "prendetevela con Lui". Non mi stupisco che i miei genitori abbiano deciso di dare questo secondo nome - oltre a quello di Maria - a me e a tutti e sei i loro figli (maschi o femmine, senza eccezioni): in un solo nome hanno impacchettato tutto ciò che ci volevano lasciare in eredità: la misericordia. Il mio primo nome "Francesca" invece, ha una storia di carne ed ossa. Di dolore e preghiera. Di paura e affidamento. Mia mamma prima di me ha avuto una gravidanza finita tragicamente. Una setticemia la stava uccidendo. Erano settimane che il bimbo era morto, ma nessuno se n'era accorto. Dopo quell'esperienza, la paura di restare di nuovo incinta, ovviamente, aveva preso il sopravvento. Ma ogni santissima volta che mamma mi racconta questo episodio, dalla sua bocca sento uscire sempre le stesse parole: "è Dio che mi ha tolto quella paura". Ed io le credo. Perché la paura della morte quella vera, quella che sai che può toccare proprio te perché l'hai sfiorata già, quella te la può togliere solo Lui (oppure devi andare da uno spacciatore, ma uno buono). E mamma è rimasta incinta, per la settima volta. E mentre mi dava alla luce, zia Checchina (diminutivo di Francesca), la zia suora, pregava per me, per il parto, per le paure di mamma, per quella nuova vita che veniva al mondo. E mi affidava, completamente, a Dio. Ed eccomi qui, nata, perché la paura non ha avuto la meglio sulla speranza. Grata della vita. E grata per chi ha pregato per me. p.s. Giulia è un'altra zia che ha pregato per me. Insomma, uno stuolo di santi. Mamma giá sapeva che di lí a poco mi sarebbero serviti come il pane. Quello che mi resta dei miei sanvalentini adolescenziali è una frase alquanto pessimista: "san valentino è la festa di ogni cretino che crede di essere amato e ci rimane fregato". Così tranchant è bruttino lo so.
E oggi aggiungo il carico da 40: non solo è la festa di ogni cretino che crede di essere amato, ma anche di chi crede di amare. Capisco che può suonare un po' tagliente, ma la realta è che è tanto tagliente quanto realista. Perché si sa così poco dell'amore. Oggi la questione è sempre più confusa e io, a quei tempi, lo ero più di tutti. Le ferite da tredicenne avevano dato una connotazione molto precisa alla mia visione del rapporto amoroso:
Grazie a Dio non tutti avete avuto la mia stessa esperienza. Ma questa festa, oggi, mi spinge a ricordare che c'è un enorme bisogno di parlarne. C'è urgenza, e in questo tempo ancora di più, di dire ai ragazzi che cos'è davvero l'amore. Cos'è il piacere. Cos'è il sesso. Cos'è la libertà. Di dire che tutta questa roba meravigliosa non può essere scissa con tanta leggerezza dalla responsabilità, dal rispetto di sé stessi, dell'altro e dall'età cronologica, perché come scriveva Therese Hargot nel suo libro Una gioventù sessualmente liberata (o quasi): "per stare insieme a qualcuno, bisogna innanzitutto ESSERE qualcuno" . Ecco, San Valentino mi è sembrata un'ottima occasione per considerare che nella vita si può davvero "rischiare di essere felici" (cit. 5pani2pesci). Un'opportunità per disconfermare quello che ci viene detto in giro, sui social, in televisione, a sanremo: che la libertà e il sesso libero faranno la nostra felicità (basta che non resti incinta e non m'attacchi malattie). È tutta una cazzata. Solo aria fritta che oggi c'è e domani hai già tirato lo sciacquone. Qui vi propongo roba forte, per chi davvero vuole rischiare di essere felice. Seriamente. Perché la vita è una cosa seria. Serissima. Alessandra e Francesco hanno mollato tutto (lavoro compreso) per andare ad annunciare ai ragazzi in giro per l'Italia e a breve per il mondo, questa cosa pazzesca. Allora se volete essere riempiti dall'infinito che vi manca dentro, iniziate a cibarvi di roba buona. Qui il link dell'incontro a Milano con Giorgio Ponte: RELAZIONI AMBIGUE - INCONTRO LIVE CON 5PANI2PESCI A MILANO Buon ascolto. E buon San Valentino, quello vero, quello serio, quello martire, quello che per Cristo ha saputo morire. «Dipende, da che dipende? Da che punto guardi il mondo tutto dipende»...oggi in macchina mentre ascoltavo questa canzone di Jarabe de Palo, in un attimo, mi è passata tutta la vita davanti. E quando dico "vita" intendo istanti, diapositive a colori o in bianco e nero puntellate sull'anima, tipo quelle mappe attaccate alle pareti dei commissariati, tempestate di bandierine colorate che stanno lì, fisse, aggrovigliate in una ragnatela di fili, a ricordare qualcosa o a lasciarsi inseguire con gli occhi perché si possa ritrovare il capo della matassa.
Una ne segna l'inizio, più in là un'altra ricorda la morte, un'altra ancora l'incontro, poi il dubbio, la paura, poi una parola e infine la svolta. Ed è così che ogni momento, ogni fatto, ogni persona della mia vita ha un colore proprio, diverso, nitido e intellegibile, come quelle bandierine fissate sulla cartina alla parete. Tutto il resto attorno è buio, sbiadito, apparentemente inutile. Sandro è una di quelle bandierine conficcate sulla mappa della mia anima: una parola per me in quel buio totale. "Da che punto guardi il tuo mondo Francesca?" - non usò esattamente queste parole, ma è proprio lì che arrivai. E fu il mio inizio. E finalmente guardai in faccia il mio dolore, e gli diedi un nome, e un cognome. E scoprii che potevo guardare quella ragnatela ingarbugliata da un'altra prospettiva, quella di Dio. E capii che tutto dipendeva dallo sguardo, dagli occhi con cui osservavo il groviglio dei miei fili. E tutto, tutto, divenne faticosissimamente comprensibile. Di quella fatica santificatrice, che può rendere santa anche la vita piú sregolata. Quella che può rendere tutto immensamente più bello. Proprio come ha fatto con me. Grazie Sandro per esserti fatto strumento Suo. Prega per me da lassù. È possibile sposarsi a 20 anni? Come si fa a non saltare le tappe?
(Alessandra e Francesco di 5pani2pesci - qui il link se volete conoscere meglio la loro storia e qui il loro podcast GratefulMonday) Alessandra si racconta in un articolo di 10 anni fa, nel frattempo è arrivata anche la piccola Rebecca. «Avevo da poco compiuto 19 anni quando Francesco, in una sera d'inverno, con la pizza al taglio in mano nella mitica Fiesta ribassata (anche essa adolescente, 17 anni) mi chiese di sposarlo. Erano passati alcuni mesi da una telefonata superlitigiosa fatta da una cabina telefonica di Assisi dopo uno dei tanti colloqui fatti con padre Giovanni Marini. Il messaggio era chiaro: - Siete pronti! Il cammino di discernimento è finito. La cosa funziona. Mi serve solo la data. - Ma Giovanni... ma cosa stai dicendo? Ma come ti viene in mente? Io ho solo 18 anni! Mi sono appena iscritta all'università, come si può pensare una cosa simile? - Io non ho più niente da dirvi. Siete venuti qui per fare un discernimento e il discernimento è finito. Ci vediamo la prossima volta con la data. Badate bene: non oltre il 4 ottobre! - Ma... ma... io... - Su donzella, vai via. Ci vediamo presto. Se fino al quel momento pensavo che p. Giovanni era un frate pazzo, adesso ne avevo piena conferma. Confusa e stravolta, chiamai Francesco per raccontargli tutto. Si arrabbiò tantissimo! e litigammo. Per quanto anch'io fossi in disaccordo con le parole di p. Giovanni non mi fece di certo piacere la reazione di Francesco. Certo è che da quel momento le cose cambiarono e cominciammo a stare per la prima volta davanti a delle domande importanti. - Ma tu con me che vuoi fare? Perché stiamo insieme? Siamo in cammino verso cosa? Qual è l'obiettivo? E io cosa volevo da questa relazione? Le mie energie erano tutte proiettate all'università, agli esami. Mi ero da poco trasferita a Roma e volevo esplorare la mia vita da studentessa squattrinata libera e felice. Francesco, sì, era molto importante, ma... troppo presto. In fondo che fretta c'era? Queste domande però esigevano delle risposte. Sulla nostra storia le idee chiare ce l'avevo, facevo sul serio, non volevo la storiella col sottotitolo "finché stiamo bene insieme"; io pensavo che lui era l'unica persona con cui davvero valesse la pena spendersi, lui si che era un uomo e non un ragazzino. Quando Francesco mi chiese di sposarlo risposi due cose: la prima fu "Ma io veramente volevo solo chiarire che intenzioni avevi con me, non volevo arrivare fino a questo punto adesso"; la seconda fu "... SI". Il problema è che quando rispondi a quelle domande il tuo cuore non trova più nessuna giustificazione, è irrefrenabile. Arrivi a toccare una gioia da Dio, tocchi la Bellezza dell'infinito con le tue mani. Davanti a tutto questo cos'è un esame? Quanto vale quel "divertiti finché sei giovane, c'è sempre tempo per costruire una famiglia". Sono illusioni. False gioie rispetto a quella di dire SI alla pienezza della vita, al fare centro. Io non lo so spiegare, non sono una scrittrice, ma so che quando trovi un tesoro vendi tutti i tuoi averi per comprare quel terreno dove il tesoro è nascosto senza pensare minimamente a quello che lasci perché in confronto è poca cosa. Ma quale saltare le tappe? Ma quale divertimento perso? Qui c'è una pienezza da non farsi scappare e prima l'acchiappi più la vivi. Non dimentico mai quanti anni ho, infatti faccio l'università, quando posso, organizzo serate con le amiche, scrivo cavolate su facebook, non mi piace rattoppare calzini e ascolto la musica da youtube. Certo a volte è pesante stare a casa con i bambini, soprattutto se, come in questa settimana, ti svegliano continuamente di notte per un dannato dentino; ma questa difficoltà è la stessa anche a quarant'anni. Sono felice di aver scelto il matrimonio come prima cosa. Sono felice di aver dedicato le mie energie, le migliori, quelle della giovinezza, per Francesco e i nostri tre monelli; e poi il dosaggio elevato di incoscienza che ci ha permesso di avventurarci per l'Europa senza pensarci troppo (da Zurigo, a Strasburgo fino a Friburgo); ma soprattutto sento la gioia di aver ascoltato quella chiamata fuori schema, nonostante le tante difficoltà. Il risultato è stato trovarsi a ventisette anni con tre pupi, la maglietta perennemente sporca di rigurgitino e, finalmente, prossima alla laurea. Non mi sono trovata male, anzi ne vado fiera. Non ho sentito nessuna privazione. Abbiamo scoperto che il modo speciale in cui Dio ci voleva amare passava per questa avventura. Un'avventura che non avremmo mai scelto da noi. Abbiamo ricevuto un annuncio e ci abbiamo scommesso su. P.S. Ci siamo sposati il 3 ottobre di quello stesso anno. Il rischio è che tu possa essere felice». Alessandra Lucca di #5pani2pesci Ho iniziato a scrivere a 13 anni, quando la mia bocca ha smesso di parlare. Quando ancora non conoscevo il dolore che portavo dentro, ma lui già conosceva me.
La penna è stata per me un rifugio. La scrittura, un dare voce alle profondità della mia anima. Ci sono voluti anni perché dessi un nome e un cognome alle mie ferite. E quando hanno preso forma, lì ad aspettarmi all'uscita di quel tunnel non ero sola ho trovato Lui, Cristo, che ha mandato per me uno stuolo di angeli ("se anche al mondo fossi esistito solo tu, Cristo sarebbe morto lo stesso, solo per te" - non ricordo se sono parole di Don Fabio Rosini) e mi ha concesso la grazia di riconoscerli - che non è scontata. Suor Cecilia è stata una di loro, una tra le prime che mi ha accolto e consolato, che ha squarciato i cieli chiusi sopra di me; che ha scacciato il senso di vuoto e di oppressione che mi devastava. Cecilia, una suora di clausura, che non aveva più la forza nemmeno di scrivere ma che fino all'ultimo respiro, dalla sua cella, ha pregato incessantemente e con la certezza di essere ascoltata. Sempre. (Se potete, leggete fino alla fine perché vi resterà nel cuore a vita questa piccola suora che oggi fa parte della schiera dei santi che ci hanno preceduto in paradiso). Dilettissima Francesca, sorella amata in Gesù quanto è buono il Signore! Ascolta anche i desideri dei suoi figli. Ti sentivo sorella anche se non ti conoscevo, perchè sei una dei figli di Tonino e Giuliana, per me dilettissimi fratelli e quindi avevo il desiderio di conoscerti. Amatissima Sorellina, grazie della tua confidenza, da una parte l'ho gradita, dall'altra ho sentito internamente la tua pena profonda. Credi, ho sofferto tanto nel saperti tanto sofferente. Sento la tua anima che soffre, vorrei soffrire io al tuo posto, cerca di amare tanto il Signore che tanto ci ha amato, fino a dare Sè stesso. Stringiti al Cuore della Madonna con tutto l'amore di figlia e chiedi a Lei che t'insegni ad amarLo. Ringraziamo sempre Dio che mette continuamente semi di amore dentro di noi e approfittiamo di questo tempo di silenzio e di preghiera. Silenzio e preghiera: questo è il segreto dell'Amore e questa è la formula: non perdere nulla di quanto riceviamo da Dio. Da Dio riceviamo tutto il bene, tutto ciò che è buono e bello, tutto ciò che fa vivere e crescere nell'Amore il nostro povero cuore. Facciamo come il piccolo Samuele che non lasciava cadere invano neppure la più piccola delle parole di Dio. Facciamo soprattutto come Maria che custodiva nel segreto del Suo Cuore il suo Infinito Amore per Dio. L'Amore è tutto. L'Amore è Dio stesso. Se capiremo questo con prontezza e con entusiasmo tutte le occasioni di Amore che ci vengono da Dio, ci verrà facile accettare anche tutto quanto non va e ci fa soffrire. Scopriremo infatti che anche la sofferenza serve perchè ci costringe a staccarci da tante cose e a scegliere sempre Dio solo. Senza un poco di sofferenza difficilmente ci liberiamo da quelle piccole mille cosucce che ci distraggono, ci occupano e ci preoccupano e col loro chiasso ci tengono prigionieri e non ci lasciano più sentire la voce sottile dello Spirito di Dio. Se soffriamo nell'anima e nel corpo....la malattia anche piccola, la solitudine, l'incomprensione....possiamo dare un valore immenso al nostro dolore offrendolo per la salvezza delle anime, e per qualche intenzione particolare in unione alla sofferenza e ai patimenti che soffrì Gesù in Croce. Con la nostra preghiera e l'offerta del nostro dolore possiamo divenire missionarie anche noi. NESSUNA SOFFERENZA E' INUTILE. Con tanto affetto ti seguo col cuore e molto più con la mia povera preghiera, quando vuoi, puoi sempre chiamarmi troverai una sorella che ti ama sinceramente e prega per te. Condivido con te la mia gioia. Per questo ti confido che il 17 è stato un giorno bellissimo per la mia anima: sono stati 7 anni e mezzo che il Signore per grazia immensa mi ha fatto la grazia di essere paralizzata, sembra un male fisicamente, ma spiritualmente è motivo di gioia per la mia anima. Questa gioia desidero Confidarla a te che considero una cara sorella. Lui, il nostro caro Salvatore, ci ha amato fino a morire per noi sulla Croce. Ti vorrei vicina per poterti abbracciare con tanto santo affetto nel nome del Signore, per dirti in suo nome che ti ama tanto e ti associa a Lui, alla sua Passione. CORAGGIO! Ricevi un caro abbraccio in Gesù. Grazie della tua lettera che ho tanto gradito. Cecilia, piccolo niente del Crocifisso L'INTERRUTTORE
4/1/2023 Stamattina mamma mi avrà ripetuto una decina di volte in un lasso di tempo statisticamente troppo breve: "quanto mi dispiace Franci!". Per ripeterlo poi ha chiamato una manciata di figli e quando è arrivata la telefonata di un'amica, aridanghete la stessa frase. E mentre la ascoltavo e le dicevo di smetterla e di non rompere (sempre delicatissima io, ma giuro che quel "non rompere" conteneva tutto l'amore infinito che ho per lei), non ho potuto fare a meno di collegare questa sua ansia alla battaglia di Marco Cappato (ndr. mamma sta bene, è il nostro miracolo vivente). Non ho potuto fare a meno di realizzare che questo è il pericolo che pochi vedono. La campagna sull'eutanasia nasce e cresce in una società, sempre più tragicamente, dello scarto (cit. Papa Francesco), dove l'idea predominante è che se stai soffrendo hai una via d'uscita: ucciderti. Ma qualcuno si è chiesto se il motivo che spingerà i nostri malati al suicidio, sarà dettato unicamente dalla sofferenza fisica che provano (e se così fosse, allora perché non si spendono, ad esempio, tutti i soldi e le forze possibili e immaginabili nella ricerca per le cure palliative e per contrastare la devastazione del dolore?) o se c'è anche dell'altro? In quella frase "quanto mi dispiace Franci!" ciò che mi ha travolto è stata l'ondata di emozioni alle quali nessuno dà retta. Come il sentirsi di peso e non più autonomi. Come l'avere nel cuore l'afflizione che la situazione in cui vertono non cambierà, anzi probabilmente negli anni peggiorerà. E ciò che li spaventa di più probabilmente non è il dolore, ma la paura di vedere coloro che amano, costretti ad essere le loro mani, i loro piedi, la loro bocca, le loro parti intime, a volte anche il loro cervello. Questo può essere più terribile del dolore che sopportano, più pesante anche dell'angoscia di restare immobili in un letto, a vita. Ma se noi a queste persone consegniamo la morte come via d'uscita, è molto probabile che la prenderanno, e non perché il dolore li sta devastando, ma perché si sentiranno sovrastati dalla preoccupazione di essere, essi stessi, un fastidio per gli altri. Saranno loro i prossimi "martiri inconsapevoli" di questa società dello scarto. Madri, padri, figli che si immoleranno pur di non opprimere la vita altrui, pur di non togliere l'ossigeno, il respiro a chi li sta assistendo. C'è bisogno di un alter ego di quel Marco Cappato così agguerrito, che con i banchetti in giro per le città gridi a tutti che perdere la vita per le persone che amiamo è la risorsa più potente che abbiamo noi esseri umani, e solo noi. Che l'amore non è per forza un do ut des, ma che attraverso l'amore gratuito, colui che dona si riempie, colui che ama cresce, colui che si dà esce fuori dal suo guscio, colui che muore a se stesso si salva. Certo, tutto questo richiederebbe l'esistenza di qualcuno che sovverta per primo il mondo, che capovolga per primo i cuori dell'umanità intera. Ma uno che lo ha fatto, esiste già. Possiamo, dunque, decidere se imitare Lui, amando e lasciandoci amare gratuitamente. Oppure scegliere di mettere in mano l'interruttore a quelli a cui vogliamo bene e chiudere gli occhi. Noi e loro. Ogni anno ci auguriamo che l'anno che viene possa essere migliore. Diamo il commiato a quello passato come fosse un sacco maleodorante dell'indifferenziata - e per molti, forse lo è stato realmente.
E poi speriamo... Speriamo che tutti diventino buoni. Che la sofferenza svanisca, che le cattiverie, le ingiustizie, il dolore non calpestino più le nostre vite. E puntualmente restiamo delusi. Perché l'essere umano è fallibile. Perché la storia dell'uomo è impregnata di bene e di male, di pianti e sorrisi, di vita e di morte. Perché gioia e dolore sono parti inscindibili dell'esistenza di ogni creatura. Ma noi possiamo scegliere cosa farne: buttare tutto nel secchio o credere che ogni fatto che stravolge la nostra vita è pedagogia; che ogni minuto è guardato con amore. Che tutto, tutto può essere salvezza. Per noi. Per l'eternità. (Parafrasi dell'omelia durante la vigilia della festa della Gran madre di Dio) |