Francesca Centofanti
È possibile sposarsi a 20 anni? Come si fa a non saltare le tappe?
(Alessandra e Francesco di 5pani2pesci - qui il link se volete conoscere meglio la loro storia e qui il loro podcast GratefulMonday) Alessandra si racconta in un articolo di 10 anni fa, nel frattempo è arrivata anche la piccola Rebecca. «Avevo da poco compiuto 19 anni quando Francesco, in una sera d'inverno, con la pizza al taglio in mano nella mitica Fiesta ribassata (anche essa adolescente, 17 anni) mi chiese di sposarlo. Erano passati alcuni mesi da una telefonata superlitigiosa fatta da una cabina telefonica di Assisi dopo uno dei tanti colloqui fatti con padre Giovanni Marini. Il messaggio era chiaro: - Siete pronti! Il cammino di discernimento è finito. La cosa funziona. Mi serve solo la data. - Ma Giovanni... ma cosa stai dicendo? Ma come ti viene in mente? Io ho solo 18 anni! Mi sono appena iscritta all'università, come si può pensare una cosa simile? - Io non ho più niente da dirvi. Siete venuti qui per fare un discernimento e il discernimento è finito. Ci vediamo la prossima volta con la data. Badate bene: non oltre il 4 ottobre! - Ma... ma... io... - Su donzella, vai via. Ci vediamo presto. Se fino al quel momento pensavo che p. Giovanni era un frate pazzo, adesso ne avevo piena conferma. Confusa e stravolta, chiamai Francesco per raccontargli tutto. Si arrabbiò tantissimo! e litigammo. Per quanto anch'io fossi in disaccordo con le parole di p. Giovanni non mi fece di certo piacere la reazione di Francesco. Certo è che da quel momento le cose cambiarono e cominciammo a stare per la prima volta davanti a delle domande importanti. - Ma tu con me che vuoi fare? Perché stiamo insieme? Siamo in cammino verso cosa? Qual è l'obiettivo? E io cosa volevo da questa relazione? Le mie energie erano tutte proiettate all'università, agli esami. Mi ero da poco trasferita a Roma e volevo esplorare la mia vita da studentessa squattrinata libera e felice. Francesco, sì, era molto importante, ma... troppo presto. In fondo che fretta c'era? Queste domande però esigevano delle risposte. Sulla nostra storia le idee chiare ce l'avevo, facevo sul serio, non volevo la storiella col sottotitolo "finché stiamo bene insieme"; io pensavo che lui era l'unica persona con cui davvero valesse la pena spendersi, lui si che era un uomo e non un ragazzino. Quando Francesco mi chiese di sposarlo risposi due cose: la prima fu "Ma io veramente volevo solo chiarire che intenzioni avevi con me, non volevo arrivare fino a questo punto adesso"; la seconda fu "... SI". Il problema è che quando rispondi a quelle domande il tuo cuore non trova più nessuna giustificazione, è irrefrenabile. Arrivi a toccare una gioia da Dio, tocchi la Bellezza dell'infinito con le tue mani. Davanti a tutto questo cos'è un esame? Quanto vale quel "divertiti finché sei giovane, c'è sempre tempo per costruire una famiglia". Sono illusioni. False gioie rispetto a quella di dire SI alla pienezza della vita, al fare centro. Io non lo so spiegare, non sono una scrittrice, ma so che quando trovi un tesoro vendi tutti i tuoi averi per comprare quel terreno dove il tesoro è nascosto senza pensare minimamente a quello che lasci perché in confronto è poca cosa. Ma quale saltare le tappe? Ma quale divertimento perso? Qui c'è una pienezza da non farsi scappare e prima l'acchiappi più la vivi. Non dimentico mai quanti anni ho, infatti faccio l'università, quando posso, organizzo serate con le amiche, scrivo cavolate su facebook, non mi piace rattoppare calzini e ascolto la musica da youtube. Certo a volte è pesante stare a casa con i bambini, soprattutto se, come in questa settimana, ti svegliano continuamente di notte per un dannato dentino; ma questa difficoltà è la stessa anche a quarant'anni. Sono felice di aver scelto il matrimonio come prima cosa. Sono felice di aver dedicato le mie energie, le migliori, quelle della giovinezza, per Francesco e i nostri tre monelli; e poi il dosaggio elevato di incoscienza che ci ha permesso di avventurarci per l'Europa senza pensarci troppo (da Zurigo, a Strasburgo fino a Friburgo); ma soprattutto sento la gioia di aver ascoltato quella chiamata fuori schema, nonostante le tante difficoltà. Il risultato è stato trovarsi a ventisette anni con tre pupi, la maglietta perennemente sporca di rigurgitino e, finalmente, prossima alla laurea. Non mi sono trovata male, anzi ne vado fiera. Non ho sentito nessuna privazione. Abbiamo scoperto che il modo speciale in cui Dio ci voleva amare passava per questa avventura. Un'avventura che non avremmo mai scelto da noi. Abbiamo ricevuto un annuncio e ci abbiamo scommesso su. P.S. Ci siamo sposati il 3 ottobre di quello stesso anno. Il rischio è che tu possa essere felice». Alessandra Lucca di #5pani2pesci
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Ho iniziato a scrivere a 13 anni, quando la mia bocca ha smesso di parlare. Quando ancora non conoscevo il dolore che portavo dentro, ma lui già conosceva me.
La penna è stata per me un rifugio. La scrittura, un dare voce alle profondità della mia anima. Ci sono voluti anni perché dessi un nome e un cognome alle mie ferite. E quando hanno preso forma, lì ad aspettarmi all'uscita di quel tunnel non ero sola ho trovato Lui, Cristo, che ha mandato per me uno stuolo di angeli ("se anche al mondo fossi esistito solo tu, Cristo sarebbe morto lo stesso, solo per te" - non ricordo se sono parole di Don Fabio Rosini) e mi ha concesso la grazia di riconoscerli - che non è scontata. Suor Cecilia è stata una di loro, una tra le prime che mi ha accolto e consolato, che ha squarciato i cieli chiusi sopra di me; che ha scacciato il senso di vuoto e di oppressione che mi devastava. Cecilia, una suora di clausura, che non aveva più la forza nemmeno di scrivere ma che fino all'ultimo respiro, dalla sua cella, ha pregato incessantemente e con la certezza di essere ascoltata. Sempre. (Se potete, leggete fino alla fine perché vi resterà nel cuore a vita questa piccola suora che oggi fa parte della schiera dei santi che ci hanno preceduto in paradiso). Dilettissima Francesca, sorella amata in Gesù quanto è buono il Signore! Ascolta anche i desideri dei suoi figli. Ti sentivo sorella anche se non ti conoscevo, perchè sei una dei figli di Tonino e Giuliana, per me dilettissimi fratelli e quindi avevo il desiderio di conoscerti. Amatissima Sorellina, grazie della tua confidenza, da una parte l'ho gradita, dall'altra ho sentito internamente la tua pena profonda. Credi, ho sofferto tanto nel saperti tanto sofferente. Sento la tua anima che soffre, vorrei soffrire io al tuo posto, cerca di amare tanto il Signore che tanto ci ha amato, fino a dare Sè stesso. Stringiti al Cuore della Madonna con tutto l'amore di figlia e chiedi a Lei che t'insegni ad amarLo. Ringraziamo sempre Dio che mette continuamente semi di amore dentro di noi e approfittiamo di questo tempo di silenzio e di preghiera. Silenzio e preghiera: questo è il segreto dell'Amore e questa è la formula: non perdere nulla di quanto riceviamo da Dio. Da Dio riceviamo tutto il bene, tutto ciò che è buono e bello, tutto ciò che fa vivere e crescere nell'Amore il nostro povero cuore. Facciamo come il piccolo Samuele che non lasciava cadere invano neppure la più piccola delle parole di Dio. Facciamo soprattutto come Maria che custodiva nel segreto del Suo Cuore il suo Infinito Amore per Dio. L'Amore è tutto. L'Amore è Dio stesso. Se capiremo questo con prontezza e con entusiasmo tutte le occasioni di Amore che ci vengono da Dio, ci verrà facile accettare anche tutto quanto non va e ci fa soffrire. Scopriremo infatti che anche la sofferenza serve perchè ci costringe a staccarci da tante cose e a scegliere sempre Dio solo. Senza un poco di sofferenza difficilmente ci liberiamo da quelle piccole mille cosucce che ci distraggono, ci occupano e ci preoccupano e col loro chiasso ci tengono prigionieri e non ci lasciano più sentire la voce sottile dello Spirito di Dio. Se soffriamo nell'anima e nel corpo....la malattia anche piccola, la solitudine, l'incomprensione....possiamo dare un valore immenso al nostro dolore offrendolo per la salvezza delle anime, e per qualche intenzione particolare in unione alla sofferenza e ai patimenti che soffrì Gesù in Croce. Con la nostra preghiera e l'offerta del nostro dolore possiamo divenire missionarie anche noi. NESSUNA SOFFERENZA E' INUTILE. Con tanto affetto ti seguo col cuore e molto più con la mia povera preghiera, quando vuoi, puoi sempre chiamarmi troverai una sorella che ti ama sinceramente e prega per te. Condivido con te la mia gioia. Per questo ti confido che il 17 è stato un giorno bellissimo per la mia anima: sono stati 7 anni e mezzo che il Signore per grazia immensa mi ha fatto la grazia di essere paralizzata, sembra un male fisicamente, ma spiritualmente è motivo di gioia per la mia anima. Questa gioia desidero Confidarla a te che considero una cara sorella. Lui, il nostro caro Salvatore, ci ha amato fino a morire per noi sulla Croce. Ti vorrei vicina per poterti abbracciare con tanto santo affetto nel nome del Signore, per dirti in suo nome che ti ama tanto e ti associa a Lui, alla sua Passione. CORAGGIO! Ricevi un caro abbraccio in Gesù. Grazie della tua lettera che ho tanto gradito. Cecilia, piccolo niente del Crocifisso L'INTERRUTTORE
4/1/2023 Stamattina mamma mi avrà ripetuto una decina di volte in un lasso di tempo statisticamente troppo breve: "quanto mi dispiace Franci!". Per ripeterlo poi ha chiamato una manciata di figli e quando è arrivata la telefonata di un'amica, aridanghete la stessa frase. E mentre la ascoltavo e le dicevo di smetterla e di non rompere (sempre delicatissima io, ma giuro che quel "non rompere" conteneva tutto l'amore infinito che ho per lei), non ho potuto fare a meno di collegare questa sua ansia alla battaglia di Marco Cappato (ndr. mamma sta bene, è il nostro miracolo vivente). Non ho potuto fare a meno di realizzare che questo è il pericolo che pochi vedono. La campagna sull'eutanasia nasce e cresce in una società, sempre più tragicamente, dello scarto (cit. Papa Francesco), dove l'idea predominante è che se stai soffrendo hai una via d'uscita: ucciderti. Ma qualcuno si è chiesto se il motivo che spingerà i nostri malati al suicidio, sarà dettato unicamente dalla sofferenza fisica che provano (e se così fosse, allora perché non si spendono, ad esempio, tutti i soldi e le forze possibili e immaginabili nella ricerca per le cure palliative e per contrastare la devastazione del dolore?) o se c'è anche dell'altro? In quella frase "quanto mi dispiace Franci!" ciò che mi ha travolto è stata l'ondata di emozioni alle quali nessuno dà retta. Come il sentirsi di peso e non più autonomi. Come l'avere nel cuore l'afflizione che la situazione in cui vertono non cambierà, anzi probabilmente negli anni peggiorerà. E ciò che li spaventa di più probabilmente non è il dolore, ma la paura di vedere coloro che amano, costretti ad essere le loro mani, i loro piedi, la loro bocca, le loro parti intime, a volte anche il loro cervello. Questo può essere più terribile del dolore che sopportano, più pesante anche dell'angoscia di restare immobili in un letto, a vita. Ma se noi a queste persone consegniamo la morte come via d'uscita, è molto probabile che la prenderanno, e non perché il dolore li sta devastando, ma perché si sentiranno sovrastati dalla preoccupazione di essere, essi stessi, un fastidio per gli altri. Saranno loro i prossimi "martiri inconsapevoli" di questa società dello scarto. Madri, padri, figli che si immoleranno pur di non opprimere la vita altrui, pur di non togliere l'ossigeno, il respiro a chi li sta assistendo. C'è bisogno di un alter ego di quel Marco Cappato così agguerrito, che con i banchetti in giro per le città gridi a tutti che perdere la vita per le persone che amiamo è la risorsa più potente che abbiamo noi esseri umani, e solo noi. Che l'amore non è per forza un do ut des, ma che attraverso l'amore gratuito, colui che dona si riempie, colui che ama cresce, colui che si dà esce fuori dal suo guscio, colui che muore a se stesso si salva. Certo, tutto questo richiederebbe l'esistenza di qualcuno che sovverta per primo il mondo, che capovolga per primo i cuori dell'umanità intera. Ma uno che lo ha fatto, esiste già. Possiamo, dunque, decidere se imitare Lui, amando e lasciandoci amare gratuitamente. Oppure scegliere di mettere in mano l'interruttore a quelli a cui vogliamo bene e chiudere gli occhi. Noi e loro. Ogni anno ci auguriamo che l'anno che viene possa essere migliore. Diamo il commiato a quello passato come fosse un sacco maleodorante dell'indifferenziata - e per molti, forse lo è stato realmente.
E poi speriamo... Speriamo che tutti diventino buoni. Che la sofferenza svanisca, che le cattiverie, le ingiustizie, il dolore non calpestino più le nostre vite. E puntualmente restiamo delusi. Perché l'essere umano è fallibile. Perché la storia dell'uomo è impregnata di bene e di male, di pianti e sorrisi, di vita e di morte. Perché gioia e dolore sono parti inscindibili dell'esistenza di ogni creatura. Ma noi possiamo scegliere cosa farne: buttare tutto nel secchio o credere che ogni fatto che stravolge la nostra vita è pedagogia; che ogni minuto è guardato con amore. Che tutto, tutto può essere salvezza. Per noi. Per l'eternità. (Parafrasi dell'omelia durante la vigilia della festa della Gran madre di Dio) Se penso ai santini o alle raffigurazioni della Sacra famiglia che vedo in giro, non trovo niente di obiettivamente e drammaticamente più lontano dalla mia. Un paio di oceani di distanza come minimo. Forse in comune abbiamo solo la stalla, simile ad un paio di stanze di casa mia, ma Maria avrà saputo tenere in ordine anche quella, immagino.
No, davvero. Se penso a quel tipo di santità, mi percepisco così piccola e incapace da renderla irraggiungibile. Poi però ricordo tutte le volte che ho letto, scritto nero su bianco: «Siate santi, perché io sono santo» (Pt 1, 16) e chi lo ha detto non è uno che mente, non è uno che parla tanto per dare aria alla bocca. Le sue parole sono fuoco, sono profezia, sono verità. Sono méta raggiungibile da chiunque, non solo dai "santini", ma anche da me, da te, che siamo il vicino di casa qualunque, quello da cui non ti aspetti proprio nulla di buono, ma che, toccato al cuore ha capito una cosa fondamentale: “La famiglia è una vocazione perché parte da un’opera di Dio. L’attuale fallimento delle famiglie è il fallimento delle fondamenta, partendo da noi stessi. É un po’ come la storia della terra promessa, che è sia un dono che una conquista; Dio ce la dà, ma noi ce la dobbiamo prendere. Così è la vocazione: Dio ce la consegna, ma noi dobbiamo coltivarla” (Don Fabio Rosini) e questo è quanto. Noi non saremo mai perfetti, le nostre famiglie saranno eternamente sgangherate, piene di difetti e fragilità, ma saranno quotidianamente chiamate alla santitá; capaci di imitare la paternità di Giuseppe, silenzioso e obbediente alla storia, confidente che è Dio che la conduce; madri come Maria che si affida al suo sposo e sta lì ovunque Dio le chiede di stare; e figli come Gesù, che cammina fin sopra alla croce, unito alla volontà del Padre. Che in ogni famiglia possiamo avere cura della vocazione che ci è stata affidata. Che ognuno ne sia custode e che sappiamo lasciare spazio a Dio perché possa operare in essa. Circa un anno fa davanti casa mia è partito un cantiere per la costruzione di un palazzo. Fino ad allora, per 20 anni, affacciandomi dal portico, ho potuto godere di tramonti che non vi dico.
Poi è successo l'ovvio. Mattone dopo mattone, impalcatura su impalcatura, l'orizzonte davanti a miei occhi è sparito e con lui la veduta di quel meraviglioso panorama. Non è stata una cosa improvvisa. Anzi, se non fosse stato per l'eco assordante dei martelli e le giravolte stridule della gru poco oliata, quasi non me ne sarei accorta. Invece granellino dopo granellino, una mattina mi sono svegliata e niente era più come prima, persino la nostra casa non sembrava più la stessa. Tutto era più buio, tutto più triste. E ho pensato che la vita senza Dio è esattamente così. E non lo dico riferendomi a chi non crede - per lo meno non solo. No, sto pensando a me, a tutti quei momenti in cui mi sono allontanata, a tutti quei momenti in cui ho pensato di bastare a me stessa - "ma che mi serve Dio, se sono così brava a famme la vita da sola". Quei momenti in cui, affacciata al portico della mia esistenza, ho lasciato che un cantiere si innalzasse davanti al cielo incantato. Ed ho lasciato che la luce svanisse. Quella luce che solo Dio può mettere nella vita di ognuno di noi attraverso una sua parola, attraverso un'omelia, attraverso una confessione, attraverso una testimonianza. Quella luce che ti dà la spinta per perdonare chi ti sta facendo del male; quella luce, grazie alla quale, il tuo matrimonio è ancora in piedi. Perché è solo grazie a lei che si può dare un senso alla nostra vita anche se ce l'hanno ciancicata. Perché è solo grazie a lei che ogni giorno sai metterti in discussione, che ogni giorno puoi capire dove hai sbagliato e ogni giorno puoi ricominciare da capo. È solo grazie a quella luce che hai la certezza che la tua lingua va tenuta a freno perché altrimenti sai compiere solo stragi, utilizzando anche poche parole. È solo quella luce che illumina la scelta piú giusta da prendere in una situazione tormentata. È solo grazie a quella luce che la depressione non ti ha devastata, perché è lei che tiene illuminata ogni parte buia della tua anima. È solo grazie a lei, che tutti i giorni davanti allo specchio ti ripeti che non puoi permetterti di stare al buio, perché chi altro scaverebbe così fino in fondo dentro te stessa? Nessuno potrebbe, e nessuno lo ha mai fatto. E senza quella luce arrancheresti nel buio e ti illuderesti di essere una persona non malaccio, tutto sommato una brava persona che non fa male a una mosca, ma che poi, girato l'angolo, sotto altre spoglie diventa capace di asfaltare chiunque ingombri la sua strada, anche solo per aver messo l'asciugamano storto sull'appendino. Non c'è altra luce che ci dia una così piena consapevolezza di noi stessi, senza per questo sentirci schiacciati dalla sensazione d'inadeguatezza che ne consegue, perché questa luce oltre a darci una conoscenza profonda, ci dà la reale percezione di essere amati oltre ogni nostra incapacità. E i cantieri cadono giù. Solo con il soffio di una sua Parola. Muta dell'anima
(non è un post contro le terapie, so benissimo che possono essere assolutamente necessarie e risolutive, è solo vita, la mia vita). "Stare in una comunità come la tua è un po' come andare in terapia", mi disse un giorno un'amica. Di getto mi scappò un sorriso, ma in seguito mi resi conto che la sua affermazione conteneva un fondo, non trascurabile, di verità. Non so cosa accada esattamente durante una seduta terapeutica, ma immagino che si scavi per capire dove si è cacciato quel nodo che dovrebbe essere venuto al pettine e che invece è rimasto lì, e noi con lui e per capire cos'è quel male profondo che non ci fa più sorridere veramente di cuore, che ci rende incapaci di amare o amare nel modo giusto; che ci lascia arrabbiati, che ci rende incapaci di gustare quello che la vita ci regala giorno per giorno, invece di stare lì a lambiccarsi il cervello per trovare sempre qualcosa di più, qualcosa di più, qualcosa di più e quando quella cosa l'abbiamo trovata non ci acquieta manco per niente se non per un piccolo attimo, determinato da un tempo e da uno spazio. È questo il lavorìo costante che negli anni hanno compiuto in me la parola, i sacramenti, la preghiera, la condivisione della vita con i fratelli di comunità: scavare, scavare, scavare. Guardarmi in uno specchio dentro, fino in fondo per capire chi ero, chi sono. Per capire a 19 anni che quella ferita che mi è stata inferta all'età di 13, ha modellato ogni centimetro della mia vita a seguire. Per capire che per questo, ho vissuto il tempo della mia adolescenza in un'alienazione totale. Per capire che non sono mai stata veramente felice. Che per anni mi sono illusa che quella situazione da nomade, saltando da una schicchera di adrenalina all'altra, fosse vera gioia e comprendere che non lo era per il semplice fatto che passavo più tempo a progettare la strada più veloce e meno dolorosa per la mia dipartita, che a vivere. Ed è vero che la terapia avrebbe sicuramente percorso lo stesso processo: focalizzare la fonte del mio dolore, la causa, il colpevole. Ma poi? Forse mi avrebbe lasciato incastrata lì, per anni, aggrappata all'odio che provavo e di cui mi alimentavo. O forse no. Non lo so. "Se solo avessimo la grazia di avere lo sguardo sempre rivolto verso il Cielo, tutti i medici della psiche umana potrebbero andare a fare altro" (cit. di un'amica), quanta sapienza in queste semplici parole e quanto vere (ancora di più se dette da una che di terapie ci capisce). Solo per grazia ho alzato gli occhi al cielo e solo per grazia quel muro a cui ho sbattuto non è stato cemento, ma misecordia, misericordia di Dio (diversamente, oggi lì ci sarebbe un bel mazzo di fiori). Alzare gli occhi al cielo mi ha permesso di capire che non mi stava distruggendo ciò che mi era accaduto, ma era l'odio che provavo che mi uccideva lentamente. "L’uomo ha una natura ferita, l'uomo è incline al male, non al bene. L’uomo non è buono, ha un cuore malato ed è questo guasto che lo danneggia, non ciò che viene da fuori. Ognuno di noi dovrebbe guardare a questa malattia che ha dentro di sé, partire da quella, da se stesso, invece di accusare sempre gli altri" (padre Maurizio Botta). Comprendere questo è stato un attimo durato anni. Un processo lungo, anche se il cuore ci ha messo un battito di ciglia a capire a cos'era chiamato. Ed è stato il perdono (conseguenza della misericordia che mi è crollata addosso al posto dei mattoni di quel muro) a ridonarmi l'amore per la vita, per me stessa, la fiducia negli altri. La gioia di vivere. La terapia avrebbe fatto salire il nodo al pettine, la fede mi ha permesso di guardarlo, di farlo mio, di smettere di odiarlo e, oggi, addirittura di provarne gratitudine. Quanto sono stupida.
Che cerco la felicità in tutte quelle cose che pompano il sangue al cuore per un istante, qualche minuto forse, per poi sbiadire nel buio e acquisire il volto di un ricordo che, a suo tempo, produrrà giusto un'eco lontana di quel sorriso. Quanto sono stupida. Che mi affanno a cercare la felicità in un plauso, in uno sguardo di approvazione, nella speranza che qualcuno si ricordi di me e ne parli compiaciuto. Quanto sono stupida. A confondere la felicità con l'autocompiacimento, quello che miete vittime durante il tragitto; quello che l'obiettivo è: io devo essere felice, e gli altri, "speriamo che se la cavino". Quanto sono stupida. A credere che la felicità stia fuori di me. Che la si possa comprare, barattare, affittare, meritare. A illudermi che la felicità acquistata possa dissetarmi, una volta per tutte. Quanto sono stupida. A non capire. A non accorgermi che invece la felicità sta, dove all'apparenza non c'è. Dove sento un odore acre di sofferenza, a volte di pesantezza. Da dove vorrei fuggire. Dove sono obbligata ad infilare le mani fino in fondo e sporcarmi. Dove mi sembra di scomparire, di sudare, di avere il fiato corto perché mi sto consacrando, e davvero scompaio, ma è per lasciare spazio. Dove tutto ciò che mi serve per essere felice sta nello smettere di affannarmi a cercare, di impegnarmi, di sforzarmi perché la felicità non si raggiunge, si vive. Quanto sono stupida a non capire che la felicità sta dove perdo un pezzo di me, per ritrovarlo nascosto negli occhi degli altri. Penso tutti i giorni alla mia morte. Anche più volte durante una giornata. Sono attimi, lampi. Schicchere sull'anima. Come vengono, vanno via e non producono ansia, né lasciano inquietudine. Hanno il sapore di un sussurro materno avvolto in un abbraccio. Dello sguardo di un padre che punta al cuore della faccenda.
Sono parole che diventano linfa nel mio sangue, echi nello spirito. Come la voce di un navigatore che imperterrita insiste: "fare inversione a U...fare inversione a U...." e se non le do retta, lei cede e rielabora il percorso - perfetta metafora del nostro libero arbitrio. E posso fare finta di niente e continuare a vivacchiare. Ma non dura molto, perché quei sussurri tornano, dopo un'ora o un giorno e rispolverano l'unica cosa certa della vita che scordiamo troppo spesso: noi moriamo. Tutti. Inevitabilmente. E sono proprio quei sussurri che mi impongono una domanda, seria: cosa ci voglio fare di questo dono della vita, a volte apparentemente incartato male? Di queste ultime ipotetiche 24 ore o tre minuti o cinquant'anni? E non sempre la risposta è così immediata. Ma credo di voler essere irrimediabilmente felice, grata; vorrei essere riconciliata con gli altri e con la mia storia, vorrei avere la gioia nel cuore. E mi accorgo che infondo non serve niente di esterno a me per esserlo. Perché potrei avere tutto ma non saperne godere e avere niente e saperne gioire a pieno, fino al fondo di quel nulla (e farci pure la scarpetta). Ho già tutto nel pacchetto iniziale, optionals compresi. Perché Dio ha messo questo anelito nel profondo dei cuori di ciascuna sua creatura e l'ha equipaggiata di tutto ciò che serve per essere felici. Mio padre è morto sussurrandomi questo. E io gli ho creduto. Senza tentennamenti. Non mi stupisce affatto che le parole del Papa abbiano suscitato tanto rumore. Non mi scandalizza neanche che ci sia qualcuno che abbia espresso il proprio disappunto, mascherandolo dietro a battutine tipo:
"scopate amici, scopate più che potete che la vita è breve per ascoltare il Vaticano". No, non mi scandalizza affatto. Perché bisogna avere un orecchio particolare per accogliere delle parole così alte. A volte non è sufficiente nemmeno essere cristiani della domenica per riuscire a comprenderle. Perché il mondo tira da tutt'altra parte e tira troppo forte per non ritrovarsi ad annaspare. Quindi no, non mi scandalizza affatto tutto questo vociare. Oggi sono cinque anni che David Buggi è salito al cielo. Porteste chiedervi cosa ha a che fare lui con quello di cui stiamo parlando. In realtá c'entra, moltissimo. David è morto confidandoci un segreto, tra i suoi ultimi respiri: cosa significa avere un orecchio pronto ad accogliere una "parola alta". David è morto indicandoci cos'è un cristiano. Ci ha spiegato che non è stata una religione a cambiargli la vita. Che non è morto felice per aver seguito pedissequamente delle regole. Che non è stato per l'ottemperanza a dei comandamenti impartiti dall'alto, che ha smesso di avere paura della morte. Che non è perché si è impegnato ad essere più buono né per essere diventato un cristiano provetto, che gli è stata donata la grazia di una morte santa. "L'anno più bello della mia vita" diceva David riferendosi al periodo della malattia. ..il tempo più bello della sua vita... E non è l'aver puntualmente timbrato il cartellino che gli è stata donata questa attitudine del cuore. David ce lo ha spiegato: è stata la fede. Quella fede che per lui è stata incontro, relazione, innamoramento. È stato il sapere di avere un Papà in cielo che non lo avrebbe fregato. È stato ascolto, non cieca obbedienza, ma fiducia che ciò che gli veniva proposto (perché la chiesa propone, non impone, offre parole d'amore, non ordina) era per un bene superiore. È stata certezza che la Chiesa era madre e guida. E conforto e sostegno. E allora quel tumore non si è trasformato in bestemmia, ma in strumento. E la morte non è stata maledetta, ma benedetta e fruttuosa. E allora quel tradimento non ci uccide più. E quel nemico lo possiamo amare. E quella parola di odio la lasciamo cadere. E tutto diventa conseguenza. E solo allora comprendiamo che le parole del papa sul combattimento per la castità, fanno semplicemente parte del pacchetto, di quello stato di innamoramento. E non c'è da scandalizzarsi se chi non è innamorato di Cristo non può comprenderle. E non mi stupisco se c'è chi non crede che si possa morire come David, che reputava l'anno più bello della sua vita quello vissuto tra i dolori e i tormenti, quello della malattia, quello che lui sapeva essere l'ultimo. E non mi stupisco, perché a 17 anni se parli così o sei pazzo o sei follemente innamorato di Dio. E lui non era un pazzo. |