Francesca Centofanti
15 Aprile 2020, oggi come due anni fa
Mia mamma, da quando ho memoria di lei, ha sempre avuto un rapporto profondo con Dio. Un dialogo con tutti i crismi del dialogo come concepito da noi comuni mortali. Diciannove anni fa è rimasta vedova e non è stata una vedovanza qualunque, perché lei e papà erano un'unica cosa, inscindibile. Non la solita frase fatta, loro erano due, ma fusi in un solo corpo. Dove lui andava, lei c'era. Non avevano interessi singolari, personali. Ogni passo, a braccetto. E così, quando papà è salito al Cielo è stata dura. Per mesi si sentiva chiamare da lui: "Giú?“ e mentre recitava il rosario, dall'altro lato del divano, continuava ad esserci papà, che rispondeva nel suo solito dormiveglia, tra un'ave Maria e l'altra. È stato difficile. Ma il suo amore per Cristo, il suo rapporto con Lui così tangibile, così vivo, è stato per lei come la pietra rotolata via del sepolcro. Le sue giornate, scandite dai rintocchi delle liturgie, trascorrono serene. Eucarestia, lodi, angelus, rosario, preghiera personale, vespri, compieta, ora terza, ora sesta, ora nona, rintocchi su rintocchi. Per sentirla al telefono devi beccare l'intervallo tra una preghiera e l'altra, altrimenti ti sbologna in quattro e quattr'otto. Freddo, neve, gelo, tosse, acciacchi della vecchiaia, niente la può fermare dall'andare al suo turno di adorazione o alla messa quotidiana. Tutti chiamano me, per chiedere di lei: "dì a tua mamma di pregare per...perché a lei la ascolta, ha un filo diretto che io non ho". Piuttosto che saltare un'eucarestia, si farebbe venire l'influenza. Non può stare troppo tempo senza riconciliarsi, perché lei i suoi peccati, a forza di parlare con Dio, li conosce bene. E oggi la vedo qui, seduta. In obbedienza a questo tempo. In obbedienza a questa storia che non le piace, ma che non le fa paura. Questa storia che non ha fatto altro che spingerla ancora di più nelle braccia di Cristo. Lei sta lì e prega. Con quella schiena curva dei suoi 85 anni, che quando il sacerdote in tv innalza l'ostia, scende giù quasi a sdraiarsi su se stessa e se potesse, lo farebbe, lo so. Questo tempo non l'ha scalfita di una virgola, non l'ha scomposta. Lei prega ed è in pace. Ed è stato solo guardandola stare, lì, che ho capito qual è il segreto di questo suo stato di grazia: lei Dio ce l'ha seduto sempre accanto a sé, su quel divano. Come papà.
0 Commenti
Ho ricevuto tante grazie nella mia famiglia di origine. Tra queste, un'immeritata pazienza nei miei confronti.
Quando penso che mamma e papà avevano rispettivamente 54 e 63 anni nel momento più idiota della mia vita (e che erano già reduci da cinque adolescenze), mi sale un brivido su per tutta la schiena e mi domando come siano riusciti a non appiccicarmi al muro di tanto in tanto. Come quel giorno quando gli arrivò la telefonata della madre superiora dell'asilo di un paesino agli estremi confini laziali. Avevo 18 anni e lavoravo lì da qualche mese; era il mio primo impiego in qualità di insegnante. "Buongiorno sig. Centofanti, le dobbiamo parlare". Percorsero quegli 80 km in dieci minuti, credo. Morale della favola: mi cacciavano. E la motivazione era che la notte, appena le suorine si addormentavano, uscivo dalla finestra e me ne andavo in giro per il paese. "E frequenta persone poco affidabili", aveva chiosato la superiora. Gli 80 km del rientro a casa, mi parvero un millennio di silenzio fitto fitto. E non era solo preoccupazione, non era solo paura, non solo arrabbiatura, ma anche l'umiliazione davanti a quelle povere consacrate, per la figlia scavezzacollo. Riparlandone con mamma qualche anno fa a sangue freddo, mi ha confessato molto schiettamente: "non so come sono riuscita a sopravviverti". E me la sono abbracciata e le ho chiesto perdono. E grazie a Dio ne ho avuto il tempo. A casa ho respirato anche tanta, tantissima misericordia. Mio padre mi faceva nera, mia madre mi urlava ogni volta che sbagliavo. Non mi è stata mai omessa la verità e qualche sberla. Ma c'è sempre stato un abbraccio ad aspettarmi alla finestra. Ed è solo per quell'abbraccio che ho potuto percepire il perdono di Cristo così tangibile e vivo nella mia vita da scapestrata. È stato attraverso quello stare di mia madre alla finestra, nell'attesa del mio ritorno. Attesa di un ritorno fisico, ma soprattutto, e più fortemente pregato, quello del cuore. "Gli corse incontro". È stato proprio così, anche per me. Ancora prima che io cambiassi, che gli chiedessi perdono, loro mi hanno amata. Un amore non esclusivo, non riservato solo a me perché figlia. Tutti quelli che li hanno sfiorati ne sono stati diretti beneficiari, e non necessariamente perché meritevoli. Mamma e papà dei meriti se ne sono sempre fregati. La persona è 'altro' dalle sue fragilità. Non li ho mai sentiti parlare dei difetti né delle manchevolezze di qualcuno. A casa non esistevano chiacchiere pungenti, non ascoltavamo maldicenze. Mamma aveva per tutti una giustificazione. E per tutti una preghiera. Una sfilza di nomi da elencare ogni giorno, ad alta voce. La sua lista. Se li ricordava tutti a memoria, come in una litania. Qualche volta il nome era dissociato dalla richiesta di preghiera, "ma tanto che importa, Dio sa..." mi diceva. Quante grazie, tante grazie, che non credo di essere riuscita a replicare in casa mia, perché non ho la fede di mia mamma e di mio papà. Però ho un desiderio profondo di santità, quella loro, quella degli uomini di tutti i giorni, e questo (spero) basta. Mio padre
Si dice che lentamente si perde la memoria sensoriale delle persone che muoiono. Mio padre è salito in Cielo 21 anni fa ma io ho ancora nelle orecchie il suono della sua voce: "Chiccolina...". Ho ancora nel naso l'odore dei suoi abbracci. Il profumo del suo maglione quando mi addormentavo sulla sua pancia. Mi ricordo ancora i suoi movimenti, come camminava quando era arrabbiato e quando invece era felice. Le sue labbra che si tendevano quando mi doveva rimproverare. Ricordo gli occhi umidi quando si commuoveva. Mi ricordo quando guardava gli ultimi cinque minuti della partita del Napoli, seduto lì in pizzo in pizzo alla poltrona, in attesa, sperando in un goal per la vittoria. E ricordo il suo viso raggiante. Ricordo il suo sorriso, sempre lì pronto per essere donato. Ricordo il suo sguardo su mio marito. Lo sguardo di un padre che finalmente può riposarsi. Ricordo tutto di lui. La sua fermezza, la sua fede, il suo amore per la vita. Ricordo i suoi occhi nei miei, nel giorno del mio matrimonio. Ricordo quando mi disse che era pronto a morire, pronto per tornare a casa. Ricordo mio padre. Ed è questo dolore che non mi fa perdere la memoria di lui. Ed è questo vuoto che non si riempie, che lo tiene ancora vivo accanto a me, presente. Buona festa, papà. È più di un mese che il cassetto della mia scrivania è vuoto e non perché non abbia avuto argomenti da trattare, lo sapete meglio di me che ce ne sarebbero stati a iosa. Infatti la mia pancia ha borbottato più e più volte, il sangue è ribollito fin su ad infuocarmi le orecchie, perché è così che mi succede. Poi arriva il prurito alla mano e non posso, non riesco a non buttare giù qualcosa. Ma ho capito che non sempre è un bene dare asilo a quell'impulso.
Ho capito, col tempo, che non tutte le spinte che arrivano vanno assecondate, anche quelle che all'apparenza ci sembrano innocue (peggio ancora se le riteniamo costruttive e necessarie per il mondo intero). Come quando ci sentiamo insigniti di una missione salvifica speciale e ci prude la necessità di esprimere quel concetto o dare assolutamente voce a quella problematica che nessuno vede tranne noi o "quei pochi come noi", e se non la diciamo, gli esseri umani andranno incontro ad estinzione certa. Allora va rivisto un po' tutto il meccanismo interiore che ogni volta sembra esploderci dentro come un ordigno attivato da contingenze esterne (e ogni volta ce n'è una nuova). Ma cosa vogliamo davvero dire? Come lo vogliamo dire? A cosa e a chi serve? Quali conseguenze avranno le nostre parole? Queste sono le domande che dovremmo passare al vaglio prima di dare voce - o penna - ai nostri pensieri. Il primo veto che ci dovremmo porre è quello sulle lamentele. Il mondo è un luogo ingiusto, non è necessario che lo ricordiamo a chi ci legge o ci ascolta. I social e i media fanno già un ottimo lavoro senza il nostro contributo. Quindi meglio un mese e mezzo di silenzio, che lo spargimento senza pietà di pessimismo e piagnistei nel cuore della gente. Perche infondo alla fin fine cos'è che, noi per primi, vorremmo trovare quando apriamo il PC o il cellulare? Quando chiniamo, magari per pochi attimi, il capo sul cuscino e cerchiamo un po' di riposo: cosa desidera il nostro cuore? Di cosa ha sete? Il mio di bellezza. Io non ho alcun dubbio, non so voi. Il mio spirito ha bisogno di vedere cose belle, cose che riaccendono la speranza. Voglio sentire qualcuno che mi dica che ce la si può fare. Parole che mi dissetino l'anima, non che la disidratino. L'esasperante ricerca di storture mi fa male, perché trattiene i miei occhi forzatamente riversati sulle iniquità di questa terra, sulle mancanze, sulle scorrettezze, sui soprusi, un po' come Alex in arancia meccanica, impossibilitato a intravedere anche solo uno spicchio di luce nella fessura di quella porta. Perché la porta c'è, ma ce la nascondono costantemente. E c'è anche la luce, ma la spengono. Ho bisogno di qualcuno che mi ricordi continuamente che "è la misericordia di Dio e non la giustizia umana a salvare il mondo" (Papa Francesco) e che se distolgo lo sguardo dalle cose di lassù (dal perdono, dall'accettare la storia qualunque essa sia, dall'amore dato e ricevuto, dal trovare Cristo negli occhi di chi incontro, dalla certezza che la croce fa parte della vita e parte integrante e salvante) troveró sempre qualcosa per cui lamentarmi, qualche sopruso da denunciare, qualche cattiveria di cui vendicarmi, qualche ingiustizia da raddrizzare. Avrò sempre qualcosa per cui non essere grata. “Il Maligno è furbo, e ci illude che con la nostra giustizia umana possiamo salvarci e salvare il mondo. In realtà, solo la giustizia di Dio ci può salvare! E la giustizia di Dio si è rivelata nella Croce. Ecco l’atto supremo di giustizia che ha sconfitto una volta per tutte il Principe di questo mondo" (ancora lui, Papa Francesco). La buona novella infondo cos'è se non questo? Cos'è se non quella voce in mezzo alle nostre più profonde disperazioni che ci implora: "sii creatura e non creatore e lascia che Dio conduca la storia". «Da che conosco Dio, so che non mi ha mai preso in giro.
So che non mi inganna; questa è la mia forza. La conoscenza di Lui mi ha condotto a confidare in Lui. L'ho dentro questa esperienza ed è incancellabile. Ho fiducia in lui. Ho fiducia anche quando la fiducia è messa alla prova e non capisco niente. Sento di confidare in Lui anche quando il mio orizzonte è buio, arido, doloroso... Non ricordo più cosa vuol dire essere religioso. Non ricordo più se sono peccatore o virtuoso: non mi interessa. Mi ricordo che posso fidarmi di Lui. So che non è il tipo da scherzare su di me, so che è fedele. Sì, è fedele. E allora, se è fedele, mi spiegherà le cose che ora non riesco a capire. E mi spiegherà anche il perchè del dolore, il perchè della morte, il perchè del male. Un padre non abbandona suo figlio. Un amico non tradisce un amico. E lui è Padre e Lui è amico. Questo te lo dico per esperienza. Non te lo dico soltanto nella fede che è un dono suo, te lo dico nell'eperienza che è conquista nostra, cammino nostro. Non sempre posso capire perché Lui fa così e così. Mi fido di lui. E se c'è dolore nel mondo, so per esperienza che Lui lo sa e sa trasformarlo in luce, in liberazione, in beatitudine». Carlo Carretto Una buona correzione dipende esclusivamente dall'intenzione con la quale la si fa.
Correggo perché amo o perché pretendo? Correggo per indicare una strada o per schiacciare al muro? Correggo stimando l'altro o giudicandolo? Correggo pensando di stare un gradino sopra o un gradino sotto? L'etimologia della parola stessa sembra volerci mettere dinanzi a due scelte, a due modi di intendere la correzione. Ma il verbo correggere (scusatemi se sbaglio) non deriva dal latino correptio, corripere: attaccare, chiamare in giudizio, accusare, rimproverare, biasimare..., ma da corrigere, cum (insieme) e regere: reggere insieme. Come se colui che corregge, portasse con l'altro il peso delle sue fragilità. Siamo capaci di questo? Ho avuto sempre una specie di attrazione per le sbavature, quelle della vita. Le inesattezze, le piccole mancanze, le imprecisioni. Un quaderno un po' sgualcito, un libro con le orecchie per ricordare dove ritrovare quella frase che t'ha cambiato la giornata. Le mani sporche di pittura. Un naso storto. Gli occhiali rotti e scotchati.
Forse ho aggiustato volutamente il tiro, perché ho sempre avuto la sensazione di stare un gradino più in basso di qualsiasi cosa fosse considerato, in quel dato momento, perfetto; troppo magra, troppo bassa, troppo emotiva, troppo menefreghista. Poco empatica, troppo empatica. Ma poi mi chiedo: infondo cos'è la perfezione? Una casa senza un calzino fuori posto? Che poi si potrebbe scrivere un articolo a parte per parlare dei calzini che misteriosamente spariscono, ma che poi sbucano ovunque. E' un viso senza difetti? Una personalità mega efficiente? Saper fare ogni cosa o essere in ogni dove? Essere una madre infallibile? Una moglie perfetta? Un'amica senza difetti? Una donna senza un capello fuori posto? Un viso senza imperfezioni - che ne so, un naso con la gobba, un neo, il capello non piastrato, una cicatrice, il primo accenno di un foruncolo, la prima ruga? Tutta questa monotonia di compiutezza, stranamente, dopo un po' mi dà noia. Certo, una casa alla 'Marie Claire maison" chi non la desidererebbe? Ma quando sento la parola "casa" il pensiero va diretto alla mia di casa che di "maison" non ha neanche l'odore. Perché quando penso "casa" mi appare subito quel sedile della sette posti appoggiato vicino al termosifone in salotto da circa cinque mesi. Lui sta lì, e ogni volta che rientro lo guardo e mi dico seriamente: "questo è disordine". E lo è davvero. Ma mi rendo conto che infondo quell'ingombrante presenza non mi dà neanche troppo fastidio. È disordine, sì, ma è casa, la mia casa. E i cappotti buttati sulla poltrona- non metaforicamente perché a casa mia si lanciano: è altro disordine. Ma è anche eco di vita vissuta, brutalmente, ma vissuta. E la tenda tolta e mai più rimessa (quella proprio vicino al divano che se guardi la televisione alle 4 del pomeriggio devi coprirti l'occhio sinistro con la mano aperta, altrimenti la luce del sole invernale ti colpisce dritto dritto sulla cornea causandoti una momentanea perdita della vista e se riesci a recuperarla devi comunque stare con gli occhi tappati, quindi tanto vale spegnere). Ecco, quella finestra nuda oramai fa parte della famiglia. E non ci posso fare niente, per me è così. Invece una casa perfetta spesso mi mette a disagio. Come quelle che non ti puoi appoggiare al muro quando scendi le scale (che poi perché lo dovresti fare non lo so, ma a casa mia lo fanno), altrimenti rischi di essere punito tramite l'amputazione dell'arto in questione; o quelle che per ogni briciola caduta in terra appare dal nulla il piccolo Hoover che woooom la risucchia in un attimo lasciando il pavimento immacolato. O quelle dove non puoi poggiare i bicchieri da nessuna parte perché il cerchietto sul mobile di legno pare sia considerato eresia. Ma so che è un problema mio. Anzi qualche volta invidio chi ha la smania della casa perfetta. Ad avercela la loro tenacia! Tutto il giorno girano per casa con il panno in mano e appena un essere vivente si muove, si sposta, va in bagno, va in cucina, in salotto, cammina (per chi ancora non è sposata, sappiate che i vostri inquilini sono nati per essere sporcatori seriali) ogni volta swiff, e tutto torna splendente. Che invidia! Ma ormai ho capito che io sono agli antipodi. E sapete quando ho percepito in maniera chiara questa mia stranezza? Un giorno stavo vedendo Johnny stecchino, non so chi di voi lo conosce. In più di una scena di quel film, Nicoletta Braschi, per pulirsi le mani, fa un gesto che ad una persona normale dovrebbe provocare un fastidio fisico, o quantomeno suscitare disappunto. Ecco, invece a me quel gesto provoca un senso di pace, di serenità. Un senso di casa (l'ho sempre detto che avrei svariati motivi per prenotare una seduta psicologica, questo forse è uno di quei motivi). Amo l'imperfezione. Non qualunque imperfezione e non sempre. Tipo il canavaccio arrotolato e appeso sul gancio della cucina, mi infastidisce (che poi mi chiedo: ma non è molto più difficile cercare di attaccarlo arrotolato che farlo nel modo giusto?). Come mi infastidisce la cucina sporca la mattina appena alzata. O il pelo che mi cresce sul neo tipo Tata Matilda. I panni umidi. Gli zaini in salotto, le camere sottosopra. Non tutto ciò che è imperfetto mi fa sentire a mio agio. Ma la maggior parte delle cose sí. Forse perché mi danno quella bella sensazione di non dover essere per forza all'altezza di qualcuno o di qualcosa. Di non dover essere sempre amabile per sentirmi amata, di non dover essere sempre impeccabile per sentirmi accettata. Di non dover avere tutto in ordine, dentro e fuori, per sentirmi a casa. E poi rifletto un po' più a fondo su questa mia stranezza che a volte mi fa sentire in difetto, a volte mancante, a volte diversa e mi viene in mente una frase che ho letto googlando: "La santità ha così poco a che vedere con la perfezione che ne è l’assoluto contrario. La perfezione è la piccola sorella viziata della morte. La santità è il gusto forte della vita così com’è – una capacità infantile di rallegrarsi di ciò che è senza chiedere nient’altro." (Christian Bobin) Forse tra i panni, i cappotti, il sedile della sette posti, la tenda mancante, i calzini che spariscono e riappaiono, i maglioncini col buchetto, il pelo sul neo, è più semplice rallegrarsi di ciò che è senza chiedere altro. Forse. Sicuramente non è la perfezione che mi porta alla santità, ma non è neanche l'imperfezione. È il saper gioire di quello che ho, sempre e ovunque io mi trovi, a casa mia o in una maison di Marie Claire dai muri bianchi splendenti. Io e la cucina non siamo mai andate troppo d'accordo - ma mettiamo i puntini sulle i, la colpa è tutta sua. Ho provato più e più volte a dirle: "ma non puoi essere un po' più accattivante, un po' più semplice? Non puoi essere come la matematica? Io ti metto tutti gli ingredienti che mi chiedi e il risultato è sempre lo stesso".
Invece niente. Lei si impunta come un mulo in mezzo alla strada e non mi viene incontro neanche di mezzo passo. Ma che male ci sarebbe, dico io, se un arrosto si cucinasse da solo!! Che fatica farebbe? Ricordo ancora i primi mesi di matrimonio (vi confido che l'ultima sera del viaggio di nozze ho pianto per lo sconforto quando ha preso forma in me questo pensiero: e mo' tutti giorni a questo io che je cucino?). In quel periodo non lavoravo, stavo a casa, non avevo figli e avevo un'infinità inimmaginabile (soprattutto in confronto ad oggi) di tempo. Beh, non ci crederete, ma in quei mesi ho raggiunto picchi altissimi di autostima. Sapete come? Avevo imparato a cucinare quattro o cinque piatti e avevo capito che la strategia della tavola ben apparecchiata con candele fumanti, i bicchieri della lista di nozze e la tovaglia buona, portava acqua al mio mulino. Alternando in maniera sapiente quelle quattro o cinque pietanze che mi ero imparata a memoria, confondevo il povero malcapitato (il marito). E infine con un tocco di classe (la musica di sottofondo) lo depistavo definitivamente. Ma prima o poi tutto addá finí. E dopo un mese che di lunedì di mercoledì e di venerdì sul piatto sempre, immancabilmente, presentavo pezzetti di pollo, il piano ha iniziato a vacillare. Poi sono arrivati i figli e il lavoro. E finalmente ho trovato una scusa più che plausibile! Non è che non so cucinare, non posso! Che liberazione. Io e la cucina abbiamo seri problemi. La fantasia che di solito mi contraddistingue in classe con i miei nanetti, in cucina sfuma (tanto per restare in tema). Quando si avvicina l'ora della decisione - che di solito è annunciata dal vocione di mio figlio 44 di piede "che se magna?" - una certa ansia sale, mista a micro attacchi di panico, anzi più che attacchi di panico, è proprio purissima voglia di scappare. Il povero malcapitato ogni tanto percepisce il mio stato d'animo, allora mi guarda tra l'intenerito e l'impietosito e dice: "Non è che stasera..." "Siiiiii!!!" Non gli lascio finire neanche la frase perché qualsiasi sia l'opzione alternativa che mi propone, è sicuramente meglio dell'opzione A. "B, B, Biiiiii!!!!!" La cucina ed io non ci stiamo molto simpatiche, ma sono speranzosa. Chissà magari un giorno me ne innamorerò. Chissà. Nel frattempo oggi rido di gusto, facendo memoria delle povere patate bruciate, delle lasagne secche, del sugo allappato, ma più di tutto delle torte cameo al cioccolato - rigorosamente già pronte - che ho rifilato per anni ai miei fratelli di comunità quando venivano a preparare a casa mia (usanza alla quale ho brutalmente messo fine nel giro di pochi anni, soprattutto per evitare l'eventuale rischio di avvelenamento di terzi). Io e la cucina siamo come il bianco e il nero, il giorno e la notte, il lungo e il largo. Come Gianni e Pinotto. Ma alla fin fine (spoiler) qui nessuno è ancora mai morto di fame. Ti benedico Signore per tutte le cose dritte, ma anche per tutte quelle che mi sembrano storte, perché..
"...Se non fossi ferito, sarei insopportabile nelle mie diaboliche sicurezze. Ferito, rimango calmo e imparo a piangere; piangendo imparo a capire gli altri, imparo la beatitudine della povertà. E' così. Se l'uomo non avesse il dolore, se non passasse nel limite della sofferenza, difficilmente infilerebbe la strada della salvezza. Se in Egitto il popolo avesse avuto la libertà, Mosè non avrebbe potuto convincerlo a tentare l'avventura della liberazione. Se nel deserto avesse trovato al posto dei serpenti, della fame e della sete, oasi incantate, non sarebbe mai giunto alla terra promessa". (Carlo Carretto) E benedetta sia ogni cosa storta se mi apre le porte del Cielo. L'ultima messa, 9 marzo. Era il mio onomastico. Durante l'omelia don Giovanni ci incoraggiava, ma io ancora non avevo capito bene perché lo stesse facendo. Cosa intendeva? Non avevo messo ancora a fuoco cosa stava accadendo, lui invece già sapeva.
E ripensandoci, col senno del poi, sento quelle sue parole addosso come la carezza di una mamma al suo bimbo, quando arriva un dolore inevitabile e lei sta, ferma, accanto. A consolare. Me la sono tenuta stretta la carezza di quell'ultima Domenica. Per il tempo che mi è mancata la mia parrocchia, la comunità. Per il tempo che mi sono mancate le corse frenetiche in eucarestia, sempre pelo pelo. L'ho custodita. Per il tempo che ho avuto nostalgia anche delle lacrime che verso di nascosto quando realizzo che Cristo si fa davvero una cosa sola con me. Sangue nel mio sangue. E quella carezza ha trovato compimento. Il suo compimento. Perché quell'ultima domenica si è fatta carne, giorno dopo giorno in questa storia, in questo tempo, che appare storto, ma Dio irrevocabilmente raddrizza. E tutto diventa eucarestia, tutto diventa adorazione, tutto diventa passione. Tutto rinascita. E Cristo si fa ostia da adorare in mia madre, nei miei figli, in mio marito, nelle piccole croci quotidiane. Si fa resurrezione. E la carezza di quell'ultima domenica si trasforma in grazia per questo tempo un po' così. Grazie Signore perché tu fai sempre immancabilmente tutto dritto. |