Francesca Centofanti
Se penso ai santini o alle raffigurazioni della Sacra famiglia che vedo in giro, non trovo niente di obiettivamente e drammaticamente più lontano dalla mia. Un paio di oceani di distanza come minimo. Forse in comune abbiamo solo la stalla, simile ad un paio di stanze di casa mia, ma Maria avrà saputo tenere in ordine anche quella, immagino.
No, davvero. Se penso a quel tipo di santità, mi percepisco così piccola e incapace da renderla irraggiungibile. Poi però ricordo tutte le volte che ho letto, scritto nero su bianco: «Siate santi, perché io sono santo» (Pt 1, 16) e chi lo ha detto non è uno che mente, non è uno che parla tanto per dare aria alla bocca. Le sue parole sono fuoco, sono profezia, sono verità. Sono méta raggiungibile da chiunque, non solo dai "santini", ma anche da me, da te, che siamo il vicino di casa qualunque, quello da cui non ti aspetti proprio nulla di buono, ma che, toccato al cuore ha capito una cosa fondamentale: “La famiglia è una vocazione perché parte da un’opera di Dio. L’attuale fallimento delle famiglie è il fallimento delle fondamenta, partendo da noi stessi. É un po’ come la storia della terra promessa, che è sia un dono che una conquista; Dio ce la dà, ma noi ce la dobbiamo prendere. Così è la vocazione: Dio ce la consegna, ma noi dobbiamo coltivarla” (Don Fabio Rosini) e questo è quanto. Noi non saremo mai perfetti, le nostre famiglie saranno eternamente sgangherate, piene di difetti e fragilità, ma saranno quotidianamente chiamate alla santitá; capaci di imitare la paternità di Giuseppe, silenzioso e obbediente alla storia, confidente che è Dio che la conduce; madri come Maria che si affida al suo sposo e sta lì ovunque Dio le chiede di stare; e figli come Gesù, che cammina fin sopra alla croce, unito alla volontà del Padre. Che in ogni famiglia possiamo avere cura della vocazione che ci è stata affidata. Che ognuno ne sia custode e che sappiamo lasciare spazio a Dio perché possa operare in essa.
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Circa un anno fa davanti casa mia è partito un cantiere per la costruzione di un palazzo. Fino ad allora, per 20 anni, affacciandomi dal portico, ho potuto godere di tramonti che non vi dico.
Poi è successo l'ovvio. Mattone dopo mattone, impalcatura su impalcatura, l'orizzonte davanti a miei occhi è sparito e con lui la veduta di quel meraviglioso panorama. Non è stata una cosa improvvisa. Anzi, se non fosse stato per l'eco assordante dei martelli e le giravolte stridule della gru poco oliata, quasi non me ne sarei accorta. Invece granellino dopo granellino, una mattina mi sono svegliata e niente era più come prima, persino la nostra casa non sembrava più la stessa. Tutto era più buio, tutto più triste. E ho pensato che la vita senza Dio è esattamente così. E non lo dico riferendomi a chi non crede - per lo meno non solo. No, sto pensando a me, a tutti quei momenti in cui mi sono allontanata, a tutti quei momenti in cui ho pensato di bastare a me stessa - "ma che mi serve Dio, se sono così brava a famme la vita da sola". Quei momenti in cui, affacciata al portico della mia esistenza, ho lasciato che un cantiere si innalzasse davanti al cielo incantato. Ed ho lasciato che la luce svanisse. Quella luce che solo Dio può mettere nella vita di ognuno di noi attraverso una sua parola, attraverso un'omelia, attraverso una confessione, attraverso una testimonianza. Quella luce che ti dà la spinta per perdonare chi ti sta facendo del male; quella luce, grazie alla quale, il tuo matrimonio è ancora in piedi. Perché è solo grazie a lei che si può dare un senso alla nostra vita anche se ce l'hanno ciancicata. Perché è solo grazie a lei che ogni giorno sai metterti in discussione, che ogni giorno puoi capire dove hai sbagliato e ogni giorno puoi ricominciare da capo. È solo grazie a quella luce che hai la certezza che la tua lingua va tenuta a freno perché altrimenti sai compiere solo stragi, utilizzando anche poche parole. È solo quella luce che illumina la scelta piú giusta da prendere in una situazione tormentata. È solo grazie a quella luce che la depressione non ti ha devastata, perché è lei che tiene illuminata ogni parte buia della tua anima. È solo grazie a lei, che tutti i giorni davanti allo specchio ti ripeti che non puoi permetterti di stare al buio, perché chi altro scaverebbe così fino in fondo dentro te stessa? Nessuno potrebbe, e nessuno lo ha mai fatto. E senza quella luce arrancheresti nel buio e ti illuderesti di essere una persona non malaccio, tutto sommato una brava persona che non fa male a una mosca, ma che poi, girato l'angolo, sotto altre spoglie diventa capace di asfaltare chiunque ingombri la sua strada, anche solo per aver messo l'asciugamano storto sull'appendino. Non c'è altra luce che ci dia una così piena consapevolezza di noi stessi, senza per questo sentirci schiacciati dalla sensazione d'inadeguatezza che ne consegue, perché questa luce oltre a darci una conoscenza profonda, ci dà la reale percezione di essere amati oltre ogni nostra incapacità. E i cantieri cadono giù. Solo con il soffio di una sua Parola. Muta dell'anima
(non è un post contro le terapie, so benissimo che possono essere assolutamente necessarie e risolutive, è solo vita, la mia vita). "Stare in una comunità come la tua è un po' come andare in terapia", mi disse un giorno un'amica. Di getto mi scappò un sorriso, ma in seguito mi resi conto che la sua affermazione conteneva un fondo, non trascurabile, di verità. Non so cosa accada esattamente durante una seduta terapeutica, ma immagino che si scavi per capire dove si è cacciato quel nodo che dovrebbe essere venuto al pettine e che invece è rimasto lì, e noi con lui e per capire cos'è quel male profondo che non ci fa più sorridere veramente di cuore, che ci rende incapaci di amare o amare nel modo giusto; che ci lascia arrabbiati, che ci rende incapaci di gustare quello che la vita ci regala giorno per giorno, invece di stare lì a lambiccarsi il cervello per trovare sempre qualcosa di più, qualcosa di più, qualcosa di più e quando quella cosa l'abbiamo trovata non ci acquieta manco per niente se non per un piccolo attimo, determinato da un tempo e da uno spazio. È questo il lavorìo costante che negli anni hanno compiuto in me la parola, i sacramenti, la preghiera, la condivisione della vita con i fratelli di comunità: scavare, scavare, scavare. Guardarmi in uno specchio dentro, fino in fondo per capire chi ero, chi sono. Per capire a 19 anni che quella ferita che mi è stata inferta all'età di 13, ha modellato ogni centimetro della mia vita a seguire. Per capire che per questo, ho vissuto il tempo della mia adolescenza in un'alienazione totale. Per capire che non sono mai stata veramente felice. Che per anni mi sono illusa che quella situazione da nomade, saltando da una schicchera di adrenalina all'altra, fosse vera gioia e comprendere che non lo era per il semplice fatto che passavo più tempo a progettare la strada più veloce e meno dolorosa per la mia dipartita, che a vivere. Ed è vero che la terapia avrebbe sicuramente percorso lo stesso processo: focalizzare la fonte del mio dolore, la causa, il colpevole. Ma poi? Forse mi avrebbe lasciato incastrata lì, per anni, aggrappata all'odio che provavo e di cui mi alimentavo. O forse no. Non lo so. "Se solo avessimo la grazia di avere lo sguardo sempre rivolto verso il Cielo, tutti i medici della psiche umana potrebbero andare a fare altro" (cit. di un'amica), quanta sapienza in queste semplici parole e quanto vere (ancora di più se dette da una che di terapie ci capisce). Solo per grazia ho alzato gli occhi al cielo e solo per grazia quel muro a cui ho sbattuto non è stato cemento, ma misecordia, misericordia di Dio (diversamente, oggi lì ci sarebbe un bel mazzo di fiori). Alzare gli occhi al cielo mi ha permesso di capire che non mi stava distruggendo ciò che mi era accaduto, ma era l'odio che provavo che mi uccideva lentamente. "L’uomo ha una natura ferita, l'uomo è incline al male, non al bene. L’uomo non è buono, ha un cuore malato ed è questo guasto che lo danneggia, non ciò che viene da fuori. Ognuno di noi dovrebbe guardare a questa malattia che ha dentro di sé, partire da quella, da se stesso, invece di accusare sempre gli altri" (padre Maurizio Botta). Comprendere questo è stato un attimo durato anni. Un processo lungo, anche se il cuore ci ha messo un battito di ciglia a capire a cos'era chiamato. Ed è stato il perdono (conseguenza della misericordia che mi è crollata addosso al posto dei mattoni di quel muro) a ridonarmi l'amore per la vita, per me stessa, la fiducia negli altri. La gioia di vivere. La terapia avrebbe fatto salire il nodo al pettine, la fede mi ha permesso di guardarlo, di farlo mio, di smettere di odiarlo e, oggi, addirittura di provarne gratitudine. Quanto sono stupida.
Che cerco la felicità in tutte quelle cose che pompano il sangue al cuore per un istante, qualche minuto forse, per poi sbiadire nel buio e acquisire il volto di un ricordo che, a suo tempo, produrrà giusto un'eco lontana di quel sorriso. Quanto sono stupida. Che mi affanno a cercare la felicità in un plauso, in uno sguardo di approvazione, nella speranza che qualcuno si ricordi di me e ne parli compiaciuto. Quanto sono stupida. A confondere la felicità con l'autocompiacimento, quello che miete vittime durante il tragitto; quello che l'obiettivo è: io devo essere felice, e gli altri, "speriamo che se la cavino". Quanto sono stupida. A credere che la felicità stia fuori di me. Che la si possa comprare, barattare, affittare, meritare. A illudermi che la felicità acquistata possa dissetarmi, una volta per tutte. Quanto sono stupida. A non capire. A non accorgermi che invece la felicità sta, dove all'apparenza non c'è. Dove sento un odore acre di sofferenza, a volte di pesantezza. Da dove vorrei fuggire. Dove sono obbligata ad infilare le mani fino in fondo e sporcarmi. Dove mi sembra di scomparire, di sudare, di avere il fiato corto perché mi sto consacrando, e davvero scompaio, ma è per lasciare spazio. Dove tutto ciò che mi serve per essere felice sta nello smettere di affannarmi a cercare, di impegnarmi, di sforzarmi perché la felicità non si raggiunge, si vive. Quanto sono stupida a non capire che la felicità sta dove perdo un pezzo di me, per ritrovarlo nascosto negli occhi degli altri. Penso tutti i giorni alla mia morte. Anche più volte durante una giornata. Sono attimi, lampi. Schicchere sull'anima. Come vengono, vanno via e non producono ansia, né lasciano inquietudine. Hanno il sapore di un sussurro materno avvolto in un abbraccio. Dello sguardo di un padre che punta al cuore della faccenda.
Sono parole che diventano linfa nel mio sangue, echi nello spirito. Come la voce di un navigatore che imperterrita insiste: "fare inversione a U...fare inversione a U...." e se non le do retta, lei cede e rielabora il percorso - perfetta metafora del nostro libero arbitrio. E posso fare finta di niente e continuare a vivacchiare. Ma non dura molto, perché quei sussurri tornano, dopo un'ora o un giorno e rispolverano l'unica cosa certa della vita che scordiamo troppo spesso: noi moriamo. Tutti. Inevitabilmente. E sono proprio quei sussurri che mi impongono una domanda, seria: cosa ci voglio fare di questo dono della vita, a volte apparentemente incartato male? Di queste ultime ipotetiche 24 ore o tre minuti o cinquant'anni? E non sempre la risposta è così immediata. Ma credo di voler essere irrimediabilmente felice, grata; vorrei essere riconciliata con gli altri e con la mia storia, vorrei avere la gioia nel cuore. E mi accorgo che infondo non serve niente di esterno a me per esserlo. Perché potrei avere tutto ma non saperne godere e avere niente e saperne gioire a pieno, fino al fondo di quel nulla (e farci pure la scarpetta). Ho già tutto nel pacchetto iniziale, optionals compresi. Perché Dio ha messo questo anelito nel profondo dei cuori di ciascuna sua creatura e l'ha equipaggiata di tutto ciò che serve per essere felici. Mio padre è morto sussurrandomi questo. E io gli ho creduto. Senza tentennamenti. Non mi stupisce affatto che le parole del Papa abbiano suscitato tanto rumore. Non mi scandalizza neanche che ci sia qualcuno che abbia espresso il proprio disappunto, mascherandolo dietro a battutine tipo:
"scopate amici, scopate più che potete che la vita è breve per ascoltare il Vaticano". No, non mi scandalizza affatto. Perché bisogna avere un orecchio particolare per accogliere delle parole così alte. A volte non è sufficiente nemmeno essere cristiani della domenica per riuscire a comprenderle. Perché il mondo tira da tutt'altra parte e tira troppo forte per non ritrovarsi ad annaspare. Quindi no, non mi scandalizza affatto tutto questo vociare. Oggi sono cinque anni che David Buggi è salito al cielo. Porteste chiedervi cosa ha a che fare lui con quello di cui stiamo parlando. In realtá c'entra, moltissimo. David è morto confidandoci un segreto, tra i suoi ultimi respiri: cosa significa avere un orecchio pronto ad accogliere una "parola alta". David è morto indicandoci cos'è un cristiano. Ci ha spiegato che non è stata una religione a cambiargli la vita. Che non è morto felice per aver seguito pedissequamente delle regole. Che non è stato per l'ottemperanza a dei comandamenti impartiti dall'alto, che ha smesso di avere paura della morte. Che non è perché si è impegnato ad essere più buono né per essere diventato un cristiano provetto, che gli è stata donata la grazia di una morte santa. "L'anno più bello della mia vita" diceva David riferendosi al periodo della malattia. ..il tempo più bello della sua vita... E non è l'aver puntualmente timbrato il cartellino che gli è stata donata questa attitudine del cuore. David ce lo ha spiegato: è stata la fede. Quella fede che per lui è stata incontro, relazione, innamoramento. È stato il sapere di avere un Papà in cielo che non lo avrebbe fregato. È stato ascolto, non cieca obbedienza, ma fiducia che ciò che gli veniva proposto (perché la chiesa propone, non impone, offre parole d'amore, non ordina) era per un bene superiore. È stata certezza che la Chiesa era madre e guida. E conforto e sostegno. E allora quel tumore non si è trasformato in bestemmia, ma in strumento. E la morte non è stata maledetta, ma benedetta e fruttuosa. E allora quel tradimento non ci uccide più. E quel nemico lo possiamo amare. E quella parola di odio la lasciamo cadere. E tutto diventa conseguenza. E solo allora comprendiamo che le parole del papa sul combattimento per la castità, fanno semplicemente parte del pacchetto, di quello stato di innamoramento. E non c'è da scandalizzarsi se chi non è innamorato di Cristo non può comprenderle. E non mi stupisco se c'è chi non crede che si possa morire come David, che reputava l'anno più bello della sua vita quello vissuto tra i dolori e i tormenti, quello della malattia, quello che lui sapeva essere l'ultimo. E non mi stupisco, perché a 17 anni se parli così o sei pazzo o sei follemente innamorato di Dio. E lui non era un pazzo. Ogni tanto mi capita di guardare le vecchie foto, quelle che scannerizzo per averne qualcuna a portata di mano o quelle che ogni tanto qualche fratello invia sulla chat di famiglia per farci quattro risate, come questa: "oddio la famiglia Addams" è uno dei commenti più carini che ci siamo concessi.
Le guardo e dopo aver sorriso cerco dentro di me un ricordo, non so, un odore, una musica, un'occhiata veloce in giro che mi faccia tornare in mente quell'istante. Cerco un pensiero, un'emozione che possa riportarmi indietro a riassaporare quel momento. Ma niente, riesco solo a ricordare qualche dettaglio: il disordine della mia camera, il banco di scuola, il mio primo fidanzato; a volte qualche episodio, qualche giorno particolare o qualche situazione ciclica, che si è ripetuta negli anni, riaffiora ma niente di piú. Poi cerco altro, cerco, cerco. Ma la memoria è sbiadita, proprio come questa foto. E più cerco e più si allontana anche quella piccola reminiscenza. E la vita mi sfugge e rotola giù in un indefinibile oblio. Il buio. Il nulla. Tanto che qualche volta mi è venuto il dubbio che io sia mai realmente esistita. Il buio è la parola che più si confà alla situazione in cui i miei ricordi annaspano. Ne tengo pochissimi stretti stretti e non li lascio scappare, perché mi restituiscono una sensazione di radici nel terreno, di appartenenza, di un prima e un dopo anche se così confuso. Che questa non fosse una condizione normale l'ho sempre saputo. E ho sempre saputo che il mio cervello, non so bene quando, ha deciso che mi sarebbe bastato il poco che ricordavo e che non mi sarebbe servito altro per vivere o sopravvivere. E ho sempre saputo che qualcosa dietro a quell'oblio c'era e che doveva avermi fatto tanto male da essersi rintanato dove non avrei più potuto vederlo né sentirlo. E ho sempre saputo che io c'ero stata lì dentro, in quell'oblio. In quel mare di silenzio. Nel buio di quella notte. E ho capito, ad un certo punto della mia vita, che se non avessi avuto la grazia di incontrare Cristo, in persona, io, in quell'abisso di silenzi, ci sarei restata. Ma Cristo l'ho incontrato. Per grazia, appunto. E l'ho incontrato dove mai avrei creduto lo si potesse incontrare. Non in un momento di alta ascesi, non in un frangente di perfetta carità e simbiosi con il cielo, no, era esattamente lì, nel punto più profondo delle mie oscurità, dove di Dio, ricordo benissimo, non c'era neanche l'odore. E lui invece è sceso dove nessuno, neanche l'amore viscerale di un genitore, può arrivare. È sceso e mi ha consolato, ma di una consolazione che non ha sapore d'uomo, perché è una consolazione che resta, che riempie, che avvolge, che è eterna, una consolazione che cancella tutto il dolore e sana tutte le ferite. Per sempre. E non torni più a leccartele. Io lo so che c'è un oblio lì dietro da qualche parte, ma so anche che è proprio da quell'oblio che il Signore ha cominciato a costruire la mia felicità. Cicatrice dopo cicatrice. Mattone dopo mattone. E se oggi sono felice forse è proprio anche grazie a quell'oblio. Ed è strana la storia, ma le cose di Dio lo sono. 15 Aprile 2020, oggi come due anni fa
Mia mamma, da quando ho memoria di lei, ha sempre avuto un rapporto profondo con Dio. Un dialogo con tutti i crismi del dialogo come concepito da noi comuni mortali. Diciannove anni fa è rimasta vedova e non è stata una vedovanza qualunque, perché lei e papà erano un'unica cosa, inscindibile. Non la solita frase fatta, loro erano due, ma fusi in un solo corpo. Dove lui andava, lei c'era. Non avevano interessi singolari, personali. Ogni passo, a braccetto. E così, quando papà è salito al Cielo è stata dura. Per mesi si sentiva chiamare da lui: "Giú?“ e mentre recitava il rosario, dall'altro lato del divano, continuava ad esserci papà, che rispondeva nel suo solito dormiveglia, tra un'ave Maria e l'altra. È stato difficile. Ma il suo amore per Cristo, il suo rapporto con Lui così tangibile, così vivo, è stato per lei come la pietra rotolata via del sepolcro. Le sue giornate, scandite dai rintocchi delle liturgie, trascorrono serene. Eucarestia, lodi, angelus, rosario, preghiera personale, vespri, compieta, ora terza, ora sesta, ora nona, rintocchi su rintocchi. Per sentirla al telefono devi beccare l'intervallo tra una preghiera e l'altra, altrimenti ti sbologna in quattro e quattr'otto. Freddo, neve, gelo, tosse, acciacchi della vecchiaia, niente la può fermare dall'andare al suo turno di adorazione o alla messa quotidiana. Tutti chiamano me, per chiedere di lei: "dì a tua mamma di pregare per...perché a lei la ascolta, ha un filo diretto che io non ho". Piuttosto che saltare un'eucarestia, si farebbe venire l'influenza. Non può stare troppo tempo senza riconciliarsi, perché lei i suoi peccati, a forza di parlare con Dio, li conosce bene. E oggi la vedo qui, seduta. In obbedienza a questo tempo. In obbedienza a questa storia che non le piace, ma che non le fa paura. Questa storia che non ha fatto altro che spingerla ancora di più nelle braccia di Cristo. Lei sta lì e prega. Con quella schiena curva dei suoi 85 anni, che quando il sacerdote in tv innalza l'ostia, scende giù quasi a sdraiarsi su se stessa e se potesse, lo farebbe, lo so. Questo tempo non l'ha scalfita di una virgola, non l'ha scomposta. Lei prega ed è in pace. Ed è stato solo guardandola stare, lì, che ho capito qual è il segreto di questo suo stato di grazia: lei Dio ce l'ha seduto sempre accanto a sé, su quel divano. Come papà. Ho ricevuto tante grazie nella mia famiglia di origine. Tra queste, un'immeritata pazienza nei miei confronti.
Quando penso che mamma e papà avevano rispettivamente 54 e 63 anni nel momento più idiota della mia vita (e che erano già reduci da cinque adolescenze), mi sale un brivido su per tutta la schiena e mi domando come siano riusciti a non appiccicarmi al muro di tanto in tanto. Come quel giorno quando gli arrivò la telefonata della madre superiora dell'asilo di un paesino agli estremi confini laziali. Avevo 18 anni e lavoravo lì da qualche mese; era il mio primo impiego in qualità di insegnante. "Buongiorno sig. Centofanti, le dobbiamo parlare". Percorsero quegli 80 km in dieci minuti, credo. Morale della favola: mi cacciavano. E la motivazione era che la notte, appena le suorine si addormentavano, uscivo dalla finestra e me ne andavo in giro per il paese. "E frequenta persone poco affidabili", aveva chiosato la superiora. Gli 80 km del rientro a casa, mi parvero un millennio di silenzio fitto fitto. E non era solo preoccupazione, non era solo paura, non solo arrabbiatura, ma anche l'umiliazione davanti a quelle povere consacrate, per la figlia scavezzacollo. Riparlandone con mamma qualche anno fa a sangue freddo, mi ha confessato molto schiettamente: "non so come sono riuscita a sopravviverti". E me la sono abbracciata e le ho chiesto perdono. E grazie a Dio ne ho avuto il tempo. A casa ho respirato anche tanta, tantissima misericordia. Mio padre mi faceva nera, mia madre mi urlava ogni volta che sbagliavo. Non mi è stata mai omessa la verità e qualche sberla. Ma c'è sempre stato un abbraccio ad aspettarmi alla finestra. Ed è solo per quell'abbraccio che ho potuto percepire il perdono di Cristo così tangibile e vivo nella mia vita da scapestrata. È stato attraverso quello stare di mia madre alla finestra, nell'attesa del mio ritorno. Attesa di un ritorno fisico, ma soprattutto, e più fortemente pregato, quello del cuore. "Gli corse incontro". È stato proprio così, anche per me. Ancora prima che io cambiassi, che gli chiedessi perdono, loro mi hanno amata. Un amore non esclusivo, non riservato solo a me perché figlia. Tutti quelli che li hanno sfiorati ne sono stati diretti beneficiari, e non necessariamente perché meritevoli. Mamma e papà dei meriti se ne sono sempre fregati. La persona è 'altro' dalle sue fragilità. Non li ho mai sentiti parlare dei difetti né delle manchevolezze di qualcuno. A casa non esistevano chiacchiere pungenti, non ascoltavamo maldicenze. Mamma aveva per tutti una giustificazione. E per tutti una preghiera. Una sfilza di nomi da elencare ogni giorno, ad alta voce. La sua lista. Se li ricordava tutti a memoria, come in una litania. Qualche volta il nome era dissociato dalla richiesta di preghiera, "ma tanto che importa, Dio sa..." mi diceva. Quante grazie, tante grazie, che non credo di essere riuscita a replicare in casa mia, perché non ho la fede di mia mamma e di mio papà. Però ho un desiderio profondo di santità, quella loro, quella degli uomini di tutti i giorni, e questo (spero) basta. Si dice che lentamente si perde la memoria sensoriale delle persone che muoiono. Mio padre è salito in Cielo 21 anni fa ma io ho ancora nelle orecchie il suono della sua voce: "Chiccolina...".
Ho ancora nel naso l'odore dei suoi abbracci. Il profumo del suo maglione quando mi addormentavo sulla sua pancia. Mi ricordo ancora i suoi movimenti, come camminava quando era arrabbiato e quando invece era felice. Le sue labbra che si tendevano quando mi doveva rimproverare. Ricordo gli occhi umidi quando si commuoveva. Mi ricordo quando guardava gli ultimi cinque minuti della partita del Napoli, seduto lì in pizzo in pizzo alla poltrona, in attesa, sperando in un goal per la vittoria. E ricordo il suo viso raggiante. Ricordo il suo sorriso, sempre lì pronto per essere donato. Ricordo il suo sguardo su mio marito. Lo sguardo di un padre che finalmente può riposarsi. Ricordo tutto di lui. La sua fermezza, la sua fede, il suo amore per la vita. Ricordo i suoi occhi nei miei, nel giorno del mio matrimonio. Ricordo quando mi disse che era pronto a morire, pronto per tornare a casa. Ricordo mio padre. Ed è questo dolore che non mi fa perdere la memoria di lui. Ed è questo vuoto che non si riempie, che lo tiene ancora vivo accanto a me, presente. Buona festa, papà. |