Francesca Centofanti
A capodanno non si festeggia un anno in più che passa, sarebbe un controsenso in un mondo come il nostro in cui è proprio il tempo che passa la paura più grande.
Si festeggia la speranza in un anno migliore del precedente e il desiderio di togliersi dalle balle quello appena trascorso. Questo è. "Che il 2024 porti roba buona" Non dico sia sbagliato sperare in qualcosa di meglio e, forse, qualche anno saremo stati pure esauditi. Ma molti altri proprio no. Perché è ovvio e palese a tutti che non esiste festeggiamento, né augurio, né macumba che abbia davvero davvero il potere di cambiare un dato di fatto: che la vita è un impasto meraviglioso - a volte forse non troppo - di gioie e di dolori. E non sarà una lancetta dell'orologio a cambiare o cancellare gli eventi della nostra storia che ci fanno soffrire. E questo è. Ma ci avete mai pensato a guardare tutta la faccenda sotto un'altra angolatura? E se quell'orologio fossimo noi? Se le lancette fossero le nostre braccia che si allargano, si tendono, si congiungono ad accogliere il nuovo anno? Qualunque nome abbia, qualunque numero, faccia, volto, evento, storia, felicità o sofferenza ci presenti? Facciamo che quell'orologio siamo noi. Perché se gli eventi non sempre possono cambiare, può sempre cambiare il cuore con cui li viviamo. Una santa (non ricordo chi, aspetto aiutino da casa) diceva: "ogni anno che passa è un anno in meno che mi separa dall'incontro con Dio". Ecco come cambia drasticamente la visione delle cose se cambi angolatura dalla quale le guardi. Certamente non tutti saremo capaci di attendere la morte come questa santa. Ma tutti siamo capaci della sua stessa santità. E per santità intendo vivere ogni giorno come un dono prezioso, ogni anno nuovo o vecchio come qualcosa di tutto bello. Tutto buono. «Non buttare via niente della tua vita, ti serve tutto. Ma quello perché m’è successo? Non l’hai ancora sfruttato fino in fondo. C’è una grazia in tutto, Dio può trasformare in bellezza anche la storia più disperata. Non abbiate paura di essere santi!» dice don Fabio Rosini. E allora buon anno davvero a tutti, qualsiasi anno sia, in cammino verso la santità.
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Negli anni ho capito che avere cura del proprio matrimonio passa anche dal prendere coraggio, mollare tutto e tutti e stare un paio di giorni cuore a cuore. Concedersi un tempo a guardarsi negli occhi e parlare di noidue, senza prescindere da noisei, ma cercarsi e ritrovarsi, per un attimo. E per una volta avevamo deciso di esagerare: quattro giorni fuori casa. Appena partiti (eravamo sul raccordo poco prima dell'uscita per l'autostrada) arriva un messaggio su whatsapp: uno dei figlio ci avvisa, con foto allegata per essere più esplicito, che c'ha un mostro sulla gamba, tipo ciste piena di sangue pisto. Si è dimenticato di rendercelo noto per più di un mese e all'improvviso, la questione è magicamente riaffiorata tra i suoi ricordi - io dico, appena non ci ha più visti circolare per casa. Primo attimo di sconforto misto a panico (che cerchi di mascherare mugugnandoti addosso che "è certamente solo una botta", ma l'urlo che senti dentro soffocato e molto più incalzante è "sarà un tumore?" Grazie a Dio non lo è. Chiamasi cheloide. E no, non temete, non si sta trasformando in un granchio, no. Risolta questa situazione, dopo due giorni i ragazzi ci chiamano perché "i gabinetti gorgogliano!!". Il nostro incubo...il gorgoglío dai bagni. Facciamo le valigie in quattro e quattr'otto e ci mettiamo in macchina. Alle 21 circa siamo di nuovo a casa. La serata corre veloce e ininterrotta fino alla mezzanotte pulendo acqua e m... nell'intercapedine. Dire che il cornuto s'è messo di buzzo buono per provare a farci buttare tutto a mare bambino e acqua sporca, è dire poco. Dire che ce l'ha quasi fatta è dire il vero. Dire che mentre borbottavamo in tunisino, tra le stradine buissime di montagna - che non si vede una ceppa manco con gli abbaglianti - sul versante di una di queste, proprio di fronte a noi, ci appare, incastonata nella parete, una Madonnina illuminata che si vede soltanto lei in tutta la parete nera come la pece che ci sovrasta, questo è dire tutto. Perché era lì ad aspettarci. Che lei lo sapeva che stavamo a sbrocca'. Ed eccola lì...in una delle sue dolcissime carezze. Che è solo grazie a Dio che abbiamo ancora il cuore e gli occhi per sentirle e per capire che la fede è anche questo, o forse soprattutto questo: un amico che ti tocca la spalla e ti dice "uè te voi svegliá??" E ci siamo svegliati. E il cornuto se l'è presa in saccoccia che il rosario a lui gli fa' venire l'orticaria. E tutta la meraviglia di quei due giorni soli soletti in quel paradiso non è andata persa. È rimasta nel mio cuore, nei miei occhi, nelle mie ossa, nella mia anima. Ne lascio un pezzettino anche a voi. Chi può dirci che c'è un modo di pregare giusto e un altro no? Solamente la pretesa infantile di essere esauditi - altrimenti "Dio è cattivo" - può rendere la preghiera arida e svuotarla di ogni senso.
Infatti sull'argomento si trovano (grazie a Dio) oceani di catechesi, omelie, libri e contributi di ogni genere. Perché ognuno di noi ha un modo diverso di pregare. Ognuno di noi ha un rapporto unico, personale con Dio (e con Maria e con quei santi di cui possiamo essere, in qualche modo, devoti). E allora c'è chi prega affidandosi alle parole consegnate dalla Chiesa. Chi preferisce una preghiera silenziosa, in ascolto. Chi una preghiera di richiesta, come quella che sale a Dio dai nostri cuori triti e ritriti dal dolore. Ma c'è anche chi non ha più né parole né silenzi, ma lacrime ed azioni che diventano preghiera. Poi c'è chi prega visitando un malato. Chi da' la vita per un figlio, chi non risponde alle provocazioni. Anche questa è preghiera. Chi sta sulla croce senza maledirla. Anch'essa è preghiera. Altissima preghiera. E poi c'è l'affare del cuore. Con quale cuore preghiamo? C'è un cuore che non chiede nulla, perché "Dio già sa quello che è buono per me". C'è quello che, invece, la grazia la chiede eccome, perché la vedova insistente, insisteva e perché Qualcuno ha detto: 'chiedete e vi sarà dato'. E poi c'è il cuore di mia mamma, che prega per la bimba che ha perso il braccio, amputato per un tumore. Lei prega affinché il braccetto le possa ricrescere, perché "se Dio è Dio cosa può impedirgli di farlo?" E come al solito arrivo sempre alla stessa conclusione: vorrei tanto che la mia preghiera assomigliasse a quella di mia madre. E che la mia fede fosse più vicino possibile ad una cosa simile alla sua: una figlia che chiede cose buone al suo papà, certa che Lui gliele puó dare. Tante volte mi chiedo perché noi genitori ci ostiniamo a voler togliere le croci ai nostri figli, quando sappiamo perfettamente che solo attraverso d'esse la nostra esistenza ha cambiato direzione?
Certo, non sul momento. A 15 anni non mi aspettavo più niente dalla vita. Pensavo più a morire che a vivere. Cercavo di alienarmi in ogni dove e in ogni cosa. E tutto mi passava sopra come acqua sulla roccia. Relazioni superficiali. Silenzi interminabili. Lasciarsi vivere per non morire. Il mio motto. Poi un incontro. Una parola. Viva. Nicodemo. "Dovete nascere dall’alto". E poi mille altre. Che hanno scavato. Hanno sanato. Hanno accompagnato. Hanno guidato. "Non ricordate più le cose passate, non pensate più alle cose antiche! Ecco, faccio una cosa nuova: proprio ora germoglia, non ve ne accorgete? Aprirò anche nel deserto una strada, immetterò fiumi nella steppa". Piano piano ogni ferita è diventata feritoia. Ogni parola, un dialogo. Costante. Presenza divina e umana nello stesso istante. Ogni salmo balsamo su relazioni malate. Ogni versetto, occhi per guardarmi dentro dove non avrei potuto guardare. Ogni vangelo, la speranza. Desiderio di riconciliazione. Spinta a perdonare chi, molte volte, non sapeva ciò che mi faceva. Forza per indietreggiare. Coraggio nell'ammettere l'errore, la ferita da me inferta. Perché la parola è una spada a due tagli. Entra e fa male, ma uscendo guarisce. Da ogni ferita, una croce. Da ogni croce, un incontro. Da ogni incontro sono nata, ogni giorno un po' di più. Benedetta sia ogni mia ferita. Benedetta ogni Parola, ché senza, sarebbe ancora silenzio. Oramai durante il fidanzamento si fa tutto o quasi: vacanze insieme, rapporti sessuali, pranzi, cene, semi-trasferimenti a casa dell'uno o dell'altro.
Il tempo benedetto dell'attesa è azzerato (e per attesa intendo l'istinto che s'innesca quando guardi una torta, ma hai la forza - e il desiderio - di aspettare che arrivino tutti gli invitati prima di assaporarla, perché è vero che l'obiettivo è mangiare, ma è il come, con chi e quando che fa la vera differenza e lascia tanta roba bella nel cuore). Perché una cosa è divorare al primo stimolo, altro è goderne lentamente ad ogni morso. Quindi, oggi, tra il tempo del fidanzamento e il tempo del matrimonio, le differenze si sono assottigliate. Il tutto è diventato una lunga linea piatta e consequenziale. Molte delle cose più importanti sono già state sperimentate e i picchi di felicità dei primi anni, sono annullati o si livellano velocemente, visto che è tutta roba già vissuta. Unica vera grande novità, forse, è l'arrivo di un figlio. Sembrerà di assaporare quella schicchera di gioia che da tempo non si provava più. Schicchera di breve durata, vi avviso: perché è vero che un figlio è un dono stupendo, ma non solo. È anche fatica, rinunce, pazienza. Notti insonni. Per dare a lui, tocca togliere a noi. Non ci sono strategie alternative o assi nella manica. Allora anche la contingenza in cui nasce il primo figlio è fondamentale. Se arriva in un tempo nuovo, un tempo in cui la coppia si sta sperimentando, si sta scoprendo, un tempo in cui ancora la novità la fa da protagonista, allora sarà più facile tenere botta alla prima meravigliosa fatica che si porta appresso questa nascita. Ma se tutto è piatto, se è roba trita e ritrita, se il figlio viene concepito in un rapporto ormai già vissuto, in una coppia giovane ma che giá spera di trovare proprio in quel figlio la vera novità, allora quel bambino può diventare davvero un peso più grande di noi. Un pacco da litigarsi fra chi pretende di dormire e chi ha il bisogno di "farsi una vita". Può essere causa di litigi. E anche causa di divisioni. È per questo che nel Qoelet si legge: c'è un tempo per ogni cosa. E mica è sadismo, e neanche cinismo o moralismo. No, no non lo è. Sono solo parole per chi vuole di piú di una vita scontata, piatta. Per chi vuole essere felice sul serio. È per chi non vuole accontentarsi solo delle briciole. Più aumentano gli anni sulla carta d'identità, più vedo che i difetti peggiorano. Qualcuno mi ha detto che sono solo peccati che prima non vedevo e ora vedo - e potrebbe essere pure una buona giustificazione per acquietare l'anima, se non fosse che è una giustificazione che non mi convince affatto.
E più mi è palese questo peggioramento, più ho un profondo desiderio di pace. Perché la vita, di contro, è un'interminabile escalation: dal giudicare gli altri, al mormorare sui tempi odierni, sulle sofferenze, sulla società, sulla politica; al lanciare accidenti agli automobilisti che ci sfrecciano a destra; incattivirci per le ingiustizie subite; rimanere matematicamente delusi da chi vive attorno a noi e lamentarci di ogni novità inaspettata e di ogni cambiamento non calcolato, né voluto. E, infine, avere pure l'illusione che tutto questo marciume sia soltanto il rispettabilissimo sfogo, indispensabile, per buttare fuori la rabbia che, a nostro avviso, gli altri (chi ci vive attorno o la società, o il tempo, o le sofferenze...) ci provocano dentro. Ma fateci pace, perché nella maggior parte dei casi non è così, perché "è quello che arriva da dentro, cioè dal cuore dell' uomo..." E comunque il punto è un altro. Perché una volta sfogato tutto l'elenco delle azioni sopra citate, 'sta pace di cui parlavamo prima (quella vera) 'ste azioni non la lasciano affatto. Anzi, mormorazione chiama mormorazione e giudizio chiama altro giudizio. Un po' come le ciliegie o le arachidi, e che fai? Te ne mangi una sola? Impossibile. Ma allora c'è una soluzione a tutto questo? Ci possiamo mettere d'impegno. Ci possiamo sforzare. Ma quanto puo' durare? Quanto tempo riusciamo a tenere i denti stretti obbligando noi stessi e la nostra bocca a non urlare un bel "ma vaffanculo a tutti quanti!" (che poi ci illudiamo essere sempre uno sfogo terapeutico). Ora parlo da cattolica, non so se è un discorso che condividerete tutti...ma è la mia esperienza. Mi ricordava proprio lo scorso sabato, il sacerdote all'omelia, che la soluzione non dipende solo da quanti cartellini timbriamo in Chiesa, quanti in comunità, quanti alla caritas, in convivenza, o alle attività parrocchiali (certamente tutto è buono per la nostra anima, ma il cuore con cui stiamo nelle cose di Dio è altrettanto importante, anzi fondamentale, perché potremmo convincere noi stessi che scaldare una sedia basti per convertire il nostro cuore indurito - ma se la nostra vita non cambia, quest'illusione può addirittura diventare scandalo per gli altri, in particolare per i più fragili, ma anche per noi stessi), che "anche Giuda è stato un assiduo frequentatore, ma... ...Insomma, tutto dipende da chi frequentiamo per davvero. Seriamente". E allora la domanda è: chi sto frequentando? Cristo è mio compagno giorno e notte? O solo alle date e agli orari segnati sull'agenda? C'è un modo per contrastare questo peggioramento? La risposta è sì. Certamente non è una soluzione definitiva, perché non avremo tregua dalla tentazione fino al giorno della nostra morte. Ma è il fare spazio a Lui in noi (senza termini di sfratto), l'unico modo per trovare quella pace che non è estraneità alla vita, ma uno starci dentro senza fare della vita stessa l'obiettivo finale. Starci dentro, lasciando che la grazia ci faccia Suoi imitatori. Starci dentro, grati. Starci dentro, ma dove "l'altro è Cristo" sempre, anche quando ci sta sul cavolo e ci sorpassa sulla destra. Starci dentro facendo vivere Cristo dentro di noi, ché non siamo capaci di nulla da soli, se non a fare di tutto un gran casino. Starci dentro, con un desiderio infinito ed eterno di Lui e di Lui soltanto. Volete capire quando un pensiero si porta appresso una struttura (per non dire stortura) ideologica?
Vi faccio un esempio facile facile, impossibile da non capire. Tre ragazzi italiani bloccati a Gerusalemme in un albergo, hanno fatto un video su tik tok. In questo video non parlano di politica, non discutono di colpe o ragioni, non fanno dissertazioni sulla situazione israeliana né su quella palestinese. Chiedono solo di essere aiutati. Nei loro occhi si legge la paura di chi non sa se a casa ci tornerà sulle proprie gambe o meno. Quello che si legge invece in alcuni commenti sotto il loro post è l'esatta descrizione della succitata becerissima ideologia. Perché, se sei ideologizzato, appena si sfiora l'argomento a te caro, l'empatia verso la sofferenza degli altri (anche se completamente avulsi da colpe) svanisce nel nulla. Se sei ideologizzato, il prossimo può anche morire stuprato, sgozzato, e non importa se si tratta di bambini, donne, anziani o disabili...anzi ti esce spontaneo pure il tweet "Quanto è bello quando brucia Tel Aviv". Perché se sei ideologizzato, il fatto che tre ragazzi italiani abbiano paura della morte non te ne frega un'emerita ceppa, l'importante è che trovi il tuo spazietto per sottolineare che hanno detto "Israele" anziché Palestina. Lo spazietto per scrivere invece di "ragazzi coraggio vi siamo vicini", "freepalestina" o "iostoconisraele". L'ideologia disumanizza il cuore dell'uomo. La lucidità, invece, accende la ragione. Restiamo lontani dalle ideologie. Non perdiamo mai il senso critico e oggettivo delle situazioni. E forse per lo meno per le cose risolvibili, ci sarà speranza. Agli animali ho sempre dato il posto che gli spetta, quello dell'animale.
Infatti non ho mai messo il bene di un cane o di un gatto al di sopra di quello di un essere umano (anche se a volte, forse ripensandoci a freddo, non avrei del tutto toppato). Ma allora perché quando incontriamo una persona triste, le diciamo, anche se scherzando: "ma che t'è morto il gatto?" Le bestie (nell'accezione di sostantivo, non di aggettivo) sono e restano bestie. Ma alcune bestie sono diverse. Sanno ad esempio, imperscrutabilmente, conquistare un cuore umano, creando un filo sottile tra loro e il padrone. È una situazione emotiva che non tutti comprendono, perché solo chi è incappato contemporaneamente in due eventi, cioè un essere umano che si lascia intenerire da un animale e un animale che sa intenerire l'uomo, sa di cosa sto parlando. Gli altri tendenzialmente, denigrano o sminuiscono il fatto. Con i cani, questo rapporto, si crea molto più facilmente. Perché il cane è, per la maggior parte dei casi, un vero e proprio animale da compagnia (il primo cane con cui ebbi davvero a che fare si chiamava difatti, Tovarišč, amico, compagno fedele). Con i gatti è diverso. Io negli anni li ho soprannominati in vari modi, ma il punto era sempre uno: degli "stron** opportunisti". Dormono a casa tua, ti riempiono di peli i divani, mangiano, fanno i loro bisogni e poi si fanno rivedere solo quando hanno di nuovo fame o, al massimo, per il tempo necessario di due carezze, e che non siano troppo prolungate altrimenti sono cavoli. Ma non tutti sono così. Alcuni sembrano gatti solo in apparenza. Gatti, con il comportamento dei veri e propri Tovarišč. Amici fraterni. Parte della famiglia, insomma. E quei tipi di gatti lì, quando muoiono, fanno un certo dolore. Ares era uno di loro. Un gatto travestito da cane, investito da una macchina. Lascia tanta roba, in poco più di un anno e mezzo che è stato con noi. Lascia soprattutto la sensazione che è stato un piccolo dono dal cielo che aveva una missione - perché non è che Dio si fa problemi ad usare un gatto per i suoi affari, capiamoci bene - e l'altro ieri pare che l'abbia conclusa. Chissà se ci rivedremo in paradiso, io spero di sì. E sono 23 .
Passando per caso (caso? ovvio no) da uno sconosciutissimo Sacro speco di Narnia sperduto su una montagna, ho letto queste parole di San Francesco, lui che quando pregava la notte, mai riusciva a finire prima dell'alba: "Rapisca, ti prego, o Signore, l'ardente e dolce forza del tuo amore la mente mia da tutte le cose che sono sotto il cielo, perché io muoia per amore dell'amor tuo, come tu ti sei degnato morire per amore dell'amor mio". Signore, donaci di essere da te rapiti e donaci la grazia di poter morire l'uno per l'altra. Continua a proteggerci e insieme a noi i nostri figli. Più del 50 per cento dei matrimoni si schianta. Una piccola percentuale per motivazioni serie o serissime. Il resto per noia, disinnamoramento, piattume, incomprensioni. Impazienza. «Non sei più quello/a di un tempo, non ti riconosco più, credo di non averti mai davvero amato, mi merito di più». Due, secondo me, sono le armi da sfoderare contro questa situazione che è, oramai, una spada di Damocle che pende su tutti i matrimoni, nessuno escluso - neanche il mio. La cura e l'intimità con Dio. Vorrei sottolineare che i matrimoni cristiani hanno le stesse identiche fragilità di tutti gli altri matrimoni, con la differenza che si crede nell'indissolubilità, nel sacramento e nella grazia che ne deriva. E poi ci stanno un sacco di altre cose che aiutano la coppia a non collassare. Tipo l'eucarestia. O una Parola quotidiana che consola, ma anche che scava nel profondo e ci restituisce l'immagine reale di noi stessi (ci si rende conto, ad esempio, di non essere affatto meglio del coniuge e, spesso, tutto si riequilibra). Un padre spirituale che ha lo stesso effetto della Parola, perché difficilmente ci dà ragione, anzi solitamente bastona, il giusto. Dei fratelli di comunità che pregano per te; dei testimoni di nozze che remano tutti verso la stessa riva: cioè la salvezza del tuo matrimonio. Che non ci diranno: "oh davvero mo' tuo marito ha rotto, fatte n'altra vita che te lo meriti!". No, di solito loro sono quelli che fanno le 4 di notte per trovarti quei due tre punti positivi di tuo marito - in quel frangente - e proiettarteli sul muro di casa in una mega gigantografia, fino a quando tu ricordi, e riesci a scovare quel briciolo di amore che hai ancora per lui - che è stato sempre lì, ma sommerso dalle millemila litigate - e lo rivedi, di nuovo, bello. Ecco non vorrei dire niente, ma io mi sento profondamente fortunata ad essere finita in un matrimonio così, con Cristo in mezzo (anche se questo non vuol dire che l'ho messo in cassaforte). Poi esistono tutti gli altri matrimoni, quelli tra persone non credenti o che credevano e non credono più. In questi matrimoni non c'è una fede religiosa, quindi in teoria non possiamo parlare di intimità con Dio, ma loro hanno il compito di avere cura l'uno dell'altro, di scegliersi ogni giorno. Di rispettarsi e non aspettarsi che l'altro sia un loro riflesso. Non restare troppo delusi per gli errori commessi, né per le parole dette male, perché siamo tutti quanti esseri incasinati e creatori di casini inenarrabili. Devono faticare per lavorare su loro stessi, per non incappare in quel maledetto pensiero "io non t'ho mai amato", perché arriva, non è una rarità, e tu ci credi. Ma non devi, l'hai semplicemente fatto come potevi in quel momento, e ora ti si sta chiedendo di farlo solo un po' di più. E poi loro, guardando le parti più esecrabili dell'altro, a fatica, imparano a scorgervi un'impotente fragilità. E forse piano piano, imparano ad amarle più di tutto il resto. Devono imparare a tacere, quando parlare significa ferire mortalmente. E devono parlare, invece, quando sono i silenzi a fare male. E devono sapere che si può toccare il fondo, perché spesso lo si tocca, ma che c'è sempre una possibilità per risalire. Per rialzarsi. Insieme. Ed è anche il mio di dovere. Il dovere anche degli sposi cristiani. Nulla di diverso da loro. Perché insieme all'intimità con Dio, c'è e ci deve essere la cura, e la pazienza, e l'impegno, e il desiderio profondo di tenere insieme un dono così immenso ma a volte incartato così male. P.S. Quanta ammirazione per quei matrimoni che, all'apparenza senza Dio, resistono. Perché c'è davvero da essere eroi a non mollare. Ne conosco molti, ma non potendo mettere le loro foto, metto queste. È bello vedere due persone, credenti o meno, che ogni mattina, per più di 20 o 30 o 40 o 50 anni, si sono alzati, si sono guardati e si sono scelti. |